Il “ma anchismo” di Kamala Harris

«Ho una pistola, se qualcuno entra in casa mia gli sparo.» Con queste parole durante una trasmissione di Oprah Winfrey, Kamala Harris ha sorpreso molti analisti del mainstream. Alcuni parlano di gaffe, ma la realtà è un’altra: Harris si dibatte in un continuo tentativo di piacere a tutti, senza mai prendere una posizione chiara, proprio come nella celebre parodia di Crozza su Veltroni. La sua campagna è un trionfo del “ma anche” («sto dalla parte degli italiani onesti, ma anche dalla parte degli evasori», ricordate?), in cui cerca disperatamente di accontentare ogni angolo dell’elettorato finendo, così, per scontentare tutti.

Il fracking è un esempio perfetto. In passato, Harris prometteva di abolirlo, cavalcando l’onda ambientalista. Oggi, ha magicamente cambiato idea: il fracking è diventato intoccabile, soprattutto in Pennsylvania, dove è fonte di lavoro e voti. Il problema è che questa inversione di marcia non convince nessuno: gli ambientalisti si sentono traditi, mentre i lavoratori vedono solo opportunismo.

La gestione dell’immigrazione non è stata meno disastrosa. L’amministrazione Biden-Harris ha provocato una crisi senza precedenti ai confini, favorendo l’ingresso di un’ondata di immigrati clandestini che ha messo in ginocchio le risorse del Paese. Anche qui, la sua incapacità di prendere una posizione decisa ha alienato entrambi gli schieramenti.

La questione di Israele mette ancora più in luce questa incoerenza. Da un lato, Harris coccola i movimenti studenteschi che nelle università americane diffondono idee pro-Hamas e antisemite, dall’altro, afferma genericamente di sostenere Israele, senza però mai assumere una posizione concreta. Il suo tentativo di restare in equilibrio tra le fazioni risulta così sfacciato da sembrare quasi surreale, soprattutto considerando che è al potere da oltre tre anni.

E poi c’è l’ideologia woke, un tema che Harris oggi evita accuratamente, pur essendone un’indomita paladina. Questa retorica, fino a qualche settimana fa centrale nella sua narrativa, è diventata tossica per larga parte del Paese, specialmente per la silent majority che si riconosce nei valori del Pledge of Allegiance: «giuro fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d’America, e alla Repubblica che essa rappresenta: una Nazione al cospetto di Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti.».

Harris sa bene che spingere oggi su tematiche come cancel culture e gender equivale a precludersi anche i consensi degli elettori democratici non radicali. Tuttavia, per quanto strategico, l’abbandono di queste battaglie finisce con l’apparire ipocrita, visto che Kamala ha costruito la sua carriera proprio su di esse.

Insomma, la campagna di Harris sta naufragando in un mare di contraddizioni. I suoi tentativi di accontentare tutti la stanno rendendo sempre più impopolare. I conservatori non vedono altro che una candidata costruita in laboratorio da establishment democratico e media mainstream nel disperato tentativo di sostituire Biden, mentre sempre più democratici la considerano un’opportunista che si sta allontanando dai valori che diceva di difendere.

Una strategia per molti aspetti obbligata ma al tempo stesso suicida, soprattutto se consideriamo che dall’altra parte c’è un genio della comunicazione del calibro di Donald Trump che, oltretutto, nei quattro anni alla Casa Bianca ha mantenuto – lui sì – le promesse fatte agli elettori.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente di marketing digitale, docente alla IATH Academy, è autore di 9 libri. È stato inviato di Vanity Fair alle elezioni USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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