Nell’ America conservatrice, parafrasando uno slogan maoista, la confusione è grande sotto il cielo, quindi la situazione è ottima. Tra paleo, neo, tardo reaganiani, libertari, fusionisti, si capisce ben poco, se non che v’è molta vivacità in quell’area e anche gli elettori se ne sono positivamente accorti premiando i repubblicani.
Ci conferma questa impressione la conferenza National Conservatism tenutasi a Orlando in Florida dal 31 ottobre al. 2 novembre. La seconda, dopo quella fondativa del luglio 2019 a Washington, benché dobbiamo ricordare anche un’iniziativa italiana, nel febbraio 2020, a Roma, a cui partecipò anche Giorgia Meloni.
Rispetto a quella di Washington, anticipata e coperta da una vasta eco mediatica anche in Italia, questa è passata un po’ in secondo piano, ma per un ragione ben specifica: allora era presidente Trump e i nazional conservatori erano considerato i teorici del trumpismo. Affermazione limitativa, certo anche se il nuovo conservatorismo “nazionalista”, aveva molti punti in comune con gli umori di cui Trump si era fatto ricettore, più che teorico.
Oggi che Trump non c’è più l’attenzione verso il meeting è stata minore, eccetto all’interno dell’area conservatrice. Ma a torto, perché, come vedremo, gli speech orlandiani sono molto più in contatto con il paese reale di quanto non sembri. La prima conferenza fu compatta su alcuni temi chiave e orientata soprattutto attorno a Yarom Hazony, lo studioso israeliano che con il suo The Virtue of nationalism (tradotto da noi da Guerini e associati) è il principale teorico di questa tendenza, e a Patrick Deneen, il capofila dei conservatori post-liberali e autore di After the liberalism. Pur essendo i due studiosi presenti a Orlando, questa conferenza ha invece visto una maggiore pluralità di temi e anche dei punti di vista, tanto da far affiorare il bisticcio, come sulla questione di Taiwan, tra i vecchi falchi neo con e chi, come Michael Anton, ha appreso la lezione dell’Afghanistan.
Pluralismo non è però eclettismo. Come ha scritto Bill Zeiser su “Spectactor World” del 6 novembre la conferenza ha affossato il tardo reaganismo e il bushismo, anche in politica estera, anche se poi riviste come “National review”, legate agli antichi schemi, e un po’ vedovelle di Ronnie, non condividono, come si vede nelle cronache di Nate Hochman dedicate alle conferenza.
Poiché tutta la documentazione è fruibile liberamente sul sito nationalconservative.org non offriremo qui una sintesi ma alcune brevi considerazioni.
La prima è lessicale. I nazional conservatori vengono presentati e si presentano come “new right”, nuova destra. L’enfasi di rottura rispetto al vecchio conservatorismo è cosi più netta. Questa “nuova destra” è però molto diversa da quella presentata nell’ottimo libro di Daniele Capezzone, Per una nuova destra (Piemme). La nuova destra dei nazional conservatori è post liberale, comunitariista e non individualista, non crede alle virtù taumaturgiche del mercato.
E qui vi è la seconda considerazione. Un conto era abbandonare la retorica free markettista di fronte alla globalizzazione e alla sua crisi, un conto è farlo ora dopo (o durante) la pandemia. Questa ha portato la globalizzazione a cercare di uscire dalla crisi, a cui l’ha ridotta anche il Covid, assorbendo diversi elementi della sua critica e del sovranismo. E presentandosi in direzione socialista: cioè assistenzialstica e tax and spending. Una glosocializzazione, anche se il nostro neologismo è orrendo.
Il neo socialismo di Biden è stata una delle bestie nere della conferenza di Orlando ma questo neo socialismo culturale è tale proprio perché retto su basi assistenzialistiche. Insomma, il nuovo conservatorismo non può tornare ad essere globalista come quello vecchio, ma recuperare una potente carica anti socialista e anti assistenzialistica è maggiormente necessario rispetto a due anni fa.
La terza considerazione, come accennavamo, è legata alla attualità pratica delle idee discusse a Orlando. Poche ore dopo la chiusura della conferenza, gli elettori della Virginia ma anche di altri stati hanno confermato molte delle letture di diversi relatori, in particolare quella che vuole gli americani, anche democratici, profondamente ostili al tentativo dei Dem di imporre un insegnamento scolastico fondato sulla Critical race theory, cioè di creare una scuola in cui la propaganda gender, blm, lgbtq e femminista costruirebbe tutto il curriculum. In buona parte delle relazioni a Orlando il nemico era individuato giustamente in questa rivoluzione woke. Ebbene, nel turno elettorale recente, gli americani sembrano avere rigettato questo socialismo culturale.
L’elemento interessante è che i primi a osteggiarla sono molti degli stessi elettori democratici, poco soddisfatti anche dall’aumento del carico fiscale che il neo socialismo di Biden porta con sé. Si aprono quindi praterie di consenso per la nuova destra, almeno sulla carta: purché non si presenti in veste estremistica.
Nazional conservatori o “nuova destra” che sia, i punti chiave mi sembrano questi:
1 – le socialisme, voilà l’ennemi (quindi riduzione del carico fiscale, riduzione delle spese assistenziali e via dicendo)
2 – ma i conservatori sono naturaliter nemici dei socialisti perché questi vogliono imporre la loro ideologia all’intera società: e quindi lo scontro degli anni futuri sarà sempre più incentrato su questioni culturali. Lo slogan non è più “it’s the economy, stupid” , come ai tempi della globalizzazione felix, ma “vince chi convince sul proprio modello culturale”
3 – non preoccuparsi eccessivamente della pluralità di voci e della cacofonia del campo di destra e conservatore. Ancora per parafrasare un detto cinese, questa volta di Deng Xiao Ping, non importa che il gatto sia reaganiano, “nazionalista”, comunitarista, l’importante è che acchiappi il topo rosso, anzi se lo mangi.
L’Italia e L’America hanno bisogno di una VERA destra. No di una destra che condivide i stessi valori liberali ma vogliono meno tasse
Yhooo!