Lo sport è il vero collante: nelle Olimpiadi delle derive, gli atleti sono normali e bellissime eccezioni

Siamo patrioti e prima ancora di centrare il nostro discorso, bisogna parlare della fantastica Olimpiade disputata dagli atleti azzurri. Ieri è arrivato un risultato storico per l’Italia: Jasmine Paolini e Sara Errani si sono guadagnate l’oro nel doppio femminile di tennis, il primo della storia italiana in questa disciplina. Risultato arrivato poche ore dopo un altro storico traguardo: il bronzo di Lorenzo Musetti nel singolare maschile, prima medaglia per l’Italia del tennis negli ultimi cento anni. Ci ha reso fieri quando, ripetutamente, ha indicando il vessillo tricolore sulla sua maglia al pubblico che lo contestava.

Sarà bello, alla fine dei Giochi Olimpici, ricordare le imprese dei nostri atleti e gettare nel dimenticatoio (anche se ci serviranno come monito per il futuro) le terribili scene che la grandeur francese ci ha riservato. Donne barbute, puffi omosessuali, madonne queer: tutto ciò che non ha a che fare con lo sport e con lo spirito olimpico, è stato inserito in quell’evento di apertura dei Giochi. E, con l’alibi della diversità, si è finiti non solo per accentuare il divario tra porzioni della società senza valorizzare le rispettive caratteristiche, ma anche per offendere la cultura e la fede della maggioranza della popolazione ospitante, quella cultura su cui pure si basa l’Occidente e lo stesso pensiero di fondo dei Giochi olimpici, che esalta le diversità e il rispetto tra persone di etnia, religione, cultura e pensiero diverso. Insomma, è lo sport il vero collante tra popoli, e non certo le sceneggiate imposte da una politica fin troppo immersa nell’ideologia. Tanto immersa da costringere gli atleti a gareggiare nell’inquinata Senna, procurando già ai primi nuotatori infezioni da Escherichia Coli.

In un contesto di stravaganze, derive, ideologie ed eccessi sfoggiati come cimeli, lo sport e gli atleti, pur nella loro eccezionalità fisica e prestazionale, raccontano la normalità. Una normalità ricercata dal popolo, che non ne può più di certe ostentazioni offensive. Una normalità che unisce le diversità e non permette a una di prevalere sull’altra. Una normalità fatta di eccezioni ma non per questo ideologicamente politicizzate. In un mondo di diversità, la normalità è Novak Djokovic, un ragazzino di 37 anni di Belgrado che si riafferma un campione senza tempo, battendo in finale lo spagnolo Alcaraz, di 17 anni più giovane. E nella sua eroicità, Djokovic fa due cose: ancora tremante per l’adrenalina, si fa il segno della croce, ringrazia Dio. Quel segno (ortodosso) della croce non offende nessuno e Novak è fiero di farlo, ma senza ostentarlo. E dopo, sale sugli spalti, raggiunge il suo staff ma soprattutto la sua famiglia. La abbraccia tra urla di gioia e pianti di commozione. Come fa un campione che, prima di essere tale, è un uomo e padre di famiglia. Che trasmette valori positivi e normali, nel rispetto degli altri che gli stanno intorno.

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