Centosessant’anni sono pochi. Sono la durata di due vite. Per noi una vita già basta perché è l’unica che abbiamo ma nel grande libro della storia due vite sono niente.
Ci sono nazioni che hanno storie di unità enormemente più lunghe. Magari hanno cambiato sistemi di governo eppure sono stati con dei confini più o meno stabiliti da tantissimi anni. Centinaia, migliaia. Noi no.
Noi quasi ultimi fra gli ultimi siamo nati come nazione con dei confini solo centosessanta anni fa e non eravamo nemmeno completi!
Mancava Roma, mancava il Veneto, mancava Trento, mancava Trieste e ovviamente mancava il loro entroterra: il Trentino, l’Istria – ma questa è un’altra storia -. Nasciamo ma nasciamo solo in parte. Diventiamo nazione senza aver concluso il lavoro. Insomma sembra un po’ una nostra abitudine quella di cominciare qualcosa e non finirla. Ma non in questo caso. Dopo quel 17 Marzo del 1861 noi diventiamo una nazione. Complessa, a volte confusa. Ma unita. E dopo tanti altri sacrifici, eroismo e coraggio, unita completamente il 4 novembre 1918 con la Vittoria nella Grande Guerra.
I piemontesi cioè i Savoia, la nostra casa regnante, venivano da una regione, la Savoia appunto, che oggi è in Francia e spesso parlavano in francese eppure erano italiani. Italiani come mia nonna nata dopo il 1861 in un piccolo paesino della Sila nella Calabria che di cognome faceva Franzè. Il cognome stesso dice qual era l’origine.
Una differenza, una distanza geografica, culturale e anche economica immensa tra nord e sud eppure dovevamo essere uniti. Uniti come volevano i nostri poeti, Dante naturalmente ma non soltanto. Un’unità richiesta dal sangue dei patrioti. Cioè di quelli che andavano a morire per costruire questa Italia che non poteva più essere soltanto un termine ideale o un’”espressione geografica”. Perché Italia voleva dire qualcosa di più. Capacità di incidere, di coinvolgere, di conquistare il mondo.
“Italia, impero del sole; Italia, signora del mondo; Italia culla delle lettere, io ti saluto. Quante volte il genere umano ti fu sottomesso, tributario delle tue armi, delle tue arti e del tuo cielo!” lo scrive una delle più importanti e influenti intellettuali europee, Madame De Stael, a fine ‘700.
E l’Italia nasce per questo. Nasce, anche, per trame di potere, certamente per voglia di conquista altrettanto certamente per un senso d’avventura ma nasce perché migliaia, forse milioni, di nostri antenati hanno versato il sangue per lei, hanno scritto sul grande libro della storia con l’inchiostro versi straordinari e indimenticabili e tutti quei versi chiedevano una patria da abitare. Sognavano e morivano per un ideale e quell’ideale doveva prendere vita.
Il 17 Marzo 1861 viene proclamato finalmente il Regno d’Italia. Siamo finalmente uniti. Con tutti i nostri difetti, poteva andare meglio certo ma quando mai nella vita le cose vanno in maniera perfetta? Però siamo nati, siamo uniti. Siamo figli di così tanti padri e tante madri illustri che soltanto a fare l’elenco di quelli conosciuti staremo ore e forse ci sentiremmo piccoli perché i nomi sono straordinari: intellettuali, poeti, letterati, combattenti, esploratori, scienziati. Anime, uomini e donne superiori che hanno portato il loro contributo al mondo e senza i quali non saremmo qui.
Ecco forse ci sentiremo inferiori a ricordare tutti quei nomi o forse invece ritroveremo l’orgoglio di essere italiani pur con i nostri difetti come la questione meridionale ancora non risolta, l’attitudine al magheggio e, soprattutto, l’Italia dei 1000 campanili che diventa l’Italia delle fazioni politiche. In Inghilterra c’è un detto “giusto o sbagliato è la mia nazione” cioè quando è in gioco l’onore e l’interesse dell’inghilterra non è importante essere democratici, laburisti, repubblicani, di sinistra, di destra eccetera eccetera perché si lotta tutti insieme. Da noi no, non è così. Da noi non è così e forse non è così perché abbiamo dimenticato da dove veniamo, i grandi ideali che ci hanno mosso e che ci dovrebbero ancora vivere a testa alta. E abbiamo dimenticato i nostri pregi straordinari. Dimenticati e cancellati e così rimangono solo i difetti per farci sentire in colpa.
Patria è il plurale di padre e noi siamo i suoi figli. I figli si ribellano, ognuno di noi ha litigato con suo padre perché abbiamo scelto nuove case, nuove strade. Ci siamo ribellati e a volte abbiamo sbagliato. Altre volte siamo diventati a nostra volta dei padri capaci di ascoltare di più i figli con cui abbiamo comunque lo stesso litigato eppure sempre con quell’amore familiare che oggi sembra davvero perduto. Che cosa è la famiglia? A che serve? Serve a essere uniti. Serve a non essere soli e a lottare insieme.
Tanti nomi hanno fatto l’Italia, tanti errori. I padri del Risorgimento Cavour, Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele non erano uguali. Anzi. Pochi sanno che Mazzini morì latitante perché voleva una Repubblica e che l’Italia fosse una nazione diversa da quella dei Savoia. Anche Garibaldi va a morire a Caprera con il rimpianto di quel che poteva essere. Eppure tutti con sulle labbra “nessuno ha amato l’Italia quanto me”. Forse in maniera diversa, forse in maniera opposta, forse in maniera ingiusta e a volte anche egoistica eppure questa è la nostra terra ed è giusto batterci per lei, per gl’ideali, per quello che rappresenta. Per il fatto che quando andiamo in giro per il mondo a volte ridono dei nostri politici o della nostra incapacità di essere precisi ma quando poi si tratta delle cose che contano davvero – bellezza, amore, rispetto, capacità di pensiero e genio – tutti muti. Tutti in ascolto delle nostre idee.
Ecco centosessanta anni fa noi siamo diventati nazione. Non una nazione completa e forse non lo siamo nemmeno adesso perché troppo spesso siamo disuniti. “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani” e forse non ci siamo riusciti. Eppure oggi festeggiamo il compleanno della nostra nazione. Il nostro compleanno.
Quando si festeggia un compleanno si sta insieme, si scherza, si è amici e alle feste si conoscono persone nuove a cui siamo legati dall’affetto verso la stessa persona. E grazie allo stesso affetto diventiamo tutti amici.
Noi amiamo l’Italia e anche se non ci conosciamo oggi festeggiamo con lei perché è la nostra festa e festeggiando insieme magari ci riscopriremo più uniti. Ci riscopriremo fratelli.
Alle feste si soffia sulle candeline. Centosessanta candeline forse sono poche ma fanno una bella luce.
E quando si spengono si esprime un desiderio. Ognuno può immaginare il suo.
Io credo che se l’Italia, quella scritta con l’inchiostro dei poeti e col sangue degli eroi, quella del Made in Italy, quella dei trionfi e del genio che conquista il mondo potesse esprimere un desiderio vorrebbe che tutti i suoi figli, quelli di oggi e quelli che verranno, si ritrovassero tutti insieme.
A litigare, a discutere ma anche a cantare le nostre canzoni e a scriverne di altre perché così fa una famiglia. E se potesse scegliere dei versi, sceglierebbe quelli del nostro inno, che il 17 marzo 1861 era solo una fortunata canzone scritta da un poeta morto per lei: “Uniti, per Dio, chi vincer ci può”.
E poi si aspetterebbe che, finito di cantare, facessimo tutti insieme il nostro dovere.
Tanti auguri Italia.
Tanti auguri Patria mia.
E buon lavoro a tutti noi che questa patria l’amiamo e che, l’abbiamo giurato, faremo tornare grande.