Lo scorso mercoledì, durante un incontro pubblico a Bogotá, il senatore colombiano e candidato presidenziale Miguel Uribe Turbay è stato vittima di un attentato armato che ha scosso profondamente l’intero Paese. Ferito gravemente alla testa, Uribe è stato trasportato d’urgenza in ospedale e operato in condizioni critiche. L’aggressore, un giovane armato con una pistola Glock, è stato arrestato sul posto.
L’episodio, già grave di per sé, assume un significato ancora più inquietante se inserito in un contesto regionale segnato da una crescente violenza politica. In molti Paesi dell’America Latina — e non solo — si è ormai diffusa una strategia brutale: eliminare fisicamente l’avversario politico. Non si tratta più di casi isolati, ma di una tendenza preoccupante che, spesso, coinvolge direttamente o indirettamente settori legati alla sinistra radicale, ai movimenti populisti o agli apparati di potere infiltrati.
In Ecuador, nel 2023, il candidato alla presidenza Fernando Villavicencio, noto per le sue denunce contro la corruzione e il narcotraffico, fu assassinato a colpi di arma da fuoco dopo un comizio elettorale. Era stato più volte minacciato per le sue posizioni dure e indipendenti. In Giappone, l’ex primo ministro Shinzo Abe, figura centrale della destra nipponica, fu ucciso in pieno giorno durante un discorso pubblico.
Anche l’Europa ha vissuto episodi simili: il caso più recente è stato l’attentato al primo ministro slovacco Robert Fico, colpito da un estremista mentre incontrava cittadini nella sua città. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha subito un tentativo di attentato da parte di un simpatizzante progressista armato durante un raduno politico. In Brasile, Jair Bolsonaro fu accoltellato nel 2018 da un ex militante di sinistra, mentre stringeva mani tra i suoi sostenitori.
In Messico, la situazione è ancora più estrema: giornalisti, magistrati, attivisti e politici locali vengono eliminati o intimiditi quotidianamente per essersi opposti al narcotraffico. Chi si espone rischia la vita. È un sistema alimentato dal caos, dall’impunità e da un silenzioso consenso ideologico in alcune fasce della società.
Tutti questi attacchi non sono il frutto della casualità. Sono il risultato di un clima di odio costruito nel tempo, fomentato da retoriche radicali che demonizzano l’avversario politico e legittimano l’aggressione. La sinistra estrema, in molti contesti, ha contribuito a creare questo ambiente tossico, dove l’opposizione non si combatte con le idee, ma con il piombo.
L’Europa non è immune. È fondamentale che le democrazie occidentali riconoscano i segnali e agiscano in anticipo. La tolleranza verso certi linguaggi, la legittimazione di gruppi violenti, la giustificazione ideologica della violenza sono il preludio a tragedie annunciate.
Serve una riflessione profonda: la politica deve tornare ad essere uno spazio di confronto, non di esecuzione. Difendere la libertà d’espressione, la legalità e la sicurezza dei candidati non è un’opzione, è una necessità urgente. L’attacco a Miguel Uribe non è solo un attacco a una persona, ma a tutta una visione di mondo. E quella visione merita di essere difesa.