C’è un filo sottile che separa la ricerca della verità dall’utilizzo politico delle inchieste. E nel caso Almasri, quel filo è stato spezzato da chi, invece di attendere con rispetto le decisioni della magistratura, ha preferito aggrapparsi a indiscrezioni e ricostruzioni parziali per attaccare il Governo.
I fatti, intanto, restano chiari. Osama Almasri Njeem, generale libico sotto mandato di arresto della Corte Penale Internazionale, è stato fermato a Torino. La Corte d’Appello di Roma ha però giudicato irrituale l’arresto, ordinandone la scarcerazione e il successivo rimpatrio. Nessuna violazione, nessun colpo di mano: solo l’applicazione della legge italiana, che prevede precisi passaggi formali in questi casi.
Eppure, da quel momento, la vicenda è diventata il pretesto per alimentare sospetti e insinuazioni. Si è parlato di “favori”, di “coperture”, di “manovre oscure”. Sono cominciate a circolare sui giornali anticipazioni di atti che non risultano ancora accessibili nemmeno agli indagati, creando un cortocircuito mediatico-giudiziario che rischia di compromettere la serietà dell’intero procedimento.
C’è un principio che dovrebbe valere per tutti, maggioranza e opposizione: la giustizia si fa nelle aule giudiziarie, non sulle colonne dei quotidiani. E invece, mentre l’indagine del Tribunale dei ministri è ancora formalmente aperta, da mesi si assiste a un fuoco incrociato basato su documenti riservati, bozze non protocollate, ricostruzioni arbitrarie.
Il Governo, da parte sua, ha mantenuto una posizione ferma e coerente: attesa fiduciosa, rispetto dell’autorità giudiziaria, nessuna fuga in avanti. Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha chiarito che le accuse più “succulente” non trovano riscontro negli atti disponibili, ribadendo quanto già affermato nelle sedi parlamentari. Lo stesso ha fatto il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. E il Presidente Giorgia Meloni, pur colpita da un’inchiesta che coinvolge anche lei, ha continuato a lavorare nell’interesse del Paese senza cedere di un millimetro alla tentazione del vittimismo.
Chi, invece, ha scelto la via della polemica, sembra interessato più alla delegittimazione delle istituzioni che alla ricerca della verità. Le opposizioni, anziché attendere la chiusura delle indagini e l’accesso ufficiale agli atti, si sono fatte megafono di fughe di notizie, agendo da sponda a una strategia di attacco politico mediato dalla magistratura.
È bene ricordare che i termini di legge per la chiusura dell’indagine risultano scaduti dal 27 giugno, anche dopo la proroga. Eppure, nonostante ciò, nessun avviso formale è stato notificato agli interessati. Dunque, a oggi, nessuna valutazione può essere onestamente formulata: né in punto di diritto, né in punto di responsabilità politica.
Nel frattempo, però, il danno mediatico è stato fatto. Ed è questo, forse, il vero obiettivo di chi agita lo “scandalo Almasri”: non ottenere giustizia, ma creare sospetto. Alimentare l’idea di un potere opaco, di un governo complice, di uno Stato deviato. Una narrazione tossica che non ha nulla a che vedere con la realtà dei fatti.
Ma l’Italia non è più il Paese delle veline, delle manette in diretta e delle sentenze sui giornali. L’Italia è un Paese che ha scelto una guida forte, determinata, fedele alla legge e all’interesse nazionale. E questo Governo non ha nulla da temere dalla verità.
Anzi, la aspetta.