Mentre sinistra e media mainstream proseguono imperterriti nella loro opera di mistificazione della realtà, dal vertice di Anchorage emerge una dichiarazione che vale più di mille analisi astruse: Volodymyr Zelensky ringrazia Donald Trump, accetta il suo invito a Washington e lo sostiene praticamente su tutta la linea.
Un endorsement che squarcia il velo di ipocrisia costruito negli ultimi anni e mette a nudo le contraddizioni di una narrazione ormai crollata. Per anni, Zelensky è stato manipolato dai cosiddetti “volenterosi” – un nome che la dice lunga sui soggetti che se lo sono autoattribuito – come un pretesto malleabile per consolidare una linea preconfezionata.
Prima, per giustificare lo scoppio del conflitto, appoggiandosi alle dichiarazioni incendiarie di Joe Biden e ad editoriali compiacenti che, nei giorni precedenti all’invasione del 2022, preparavano l’opinione pubblica a considerare la guerra inevitabile (consiglio: andate a rivedere come il presidente Wilson convinse gli americani che occorreva entrare nel Primo conflitto mondiale).
Poi, per sabotare ogni ipotesi di pace con Putin, trasformato in un paria da demonizzare e non da affrontare. Se, come ribadiva Biden con quella fermezza caricaturale che rasentava il ridicolo, parlare con lui era «fuori discussione», la conseguenza logica – grottesca e surreale – sarebbe stata dichiarare guerra alla Russia e tentare di invaderla con le scarpe di cartone del woke.
Ora veniamo al vertice di Anchorage, durante il quale Trump non si è limitato a proporre una trattativa: ha dettato tempi, toni e contenuti, dimostrando ancora una volta che la leadership personale conta più di mille comunicati. Lo ha raccontato lui stesso a Sean Hannity, con la chiarezza di chi sa di aver cambiato la partita: tre ore di colloqui serrati, un risultato che ha definito un “10” per l’intesa raggiunta, la convinzione che si possano salvare le 5-7.000 vite che ogni settimana vengono spazzate via dal conflitto.
«Se fossi stato presidente, questa guerra non sarebbe mai scoppiata», ha ribadito, definendo il conflitto «la cosa peggiore dalla Seconda Guerra Mondiale» e attribuendola alla «grave incompetenza» di Biden.
Dietro la sua linea non c’è improvvisazione: c’è strategia. Un accordo da 1.000 miliardi con l’Unione Europea per il petrolio americano, tariffe del 50% all’India per fermare l’import russo, raddoppio dei contributi NATO dal 2 al 5%, e un controllo diretto della dinamica negoziale con Putin. E, soprattutto, la proposta di un vertice trilaterale con Zelensky e lo stesso Putin, con lui presente per garantirne il successo. Non è isolazionismo: è realpolitik pura.
La stessa che ispira la sua “Dottrina Trump” – «niente guerre per sempre» – con cui ha già risolto conflitti come India-Pakistan, Ruanda-Congo e ha decimato il programma nucleare iraniano, impresa rimasta tabù per 22 anni.
La scena di Anchorage riporta alla memoria Pratica di Mare, il 28 maggio 2002, quando Silvio Berlusconi ebbe il coraggio di riunire Bush e Putin e inaugurare il Consiglio NATO-Russia. In quell’occasione prese forma lo “spirito di Pratica di Mare”: l’idea che la sicurezza occidentale non nascesse dalla contrapposizione sterile ma dal coinvolgimento della Russia in un sistema multilaterale, con fiducia reciproca al posto delle barriere. Un atto di leadership che oggi, a distanza di oltre vent’anni, trova nuova linfa in Trump, capace di unire forza economica e volontà politica per fermare la guerra.
Ed è in questo contesto che si inseriscono le parole di Giorgia Meloni, che ha parlato di «spiragli di pace finalmente possibili dopo mesi di stallo» e ha sottolineato come ad Anchorage siano emerse «novità importanti sul fronte delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina». Una formula che ricalca in modo impressionante lo spirito di Pratica di Mare: allora l’idea era quella di includere la Russia in un quadro di sicurezza condivisa, oggi l’obiettivo è blindare l’Ucraina con garanzie collettive ispirate all’articolo 5 della NATO.
Trump ha ripreso e rilanciato l’idea italiana di un meccanismo vincolante, che permetta a Kiev di beneficiare della protezione dei partner occidentali – Stati Uniti in testa – pronti ad attivarsi nel caso di una nuova aggressione russa. Non parole vuote, ma una clausola concreta di sicurezza collettiva, capace di trasformare la pace in un deterrente stabile.
Così Meloni e Trump, da sponde diverse ma convergenti, tracciano un percorso che segna un punto di svolta: la pace non come resa, ma come equilibrio fondato su deterrenza e responsabilità. Non la retorica delle “guerre infinite”, ma la costruzione di un quadro multilaterale che protegga l’Ucraina e, insieme, eviti un conflitto senza fine in Europa.
È la stessa lezione che Berlusconi, per anni, ha ripetuto invano: ricucire i rapporti con la Russia, garantire sicurezza con regole condivise, perché l’alternativa sarebbe stata la catastrofe economica e militare che oggi vediamo materializzarsi sotto i nostri occhi.
Ed è sconcertante, ma non sorprendente, vedere come i media e la sinistra abbiano reagito con la solita giravolta: fino a ieri Zelensky era la vittima sacra da non tradire mai, oggi che si siede al tavolo con Trump gli stessi minimizzano, dicendo che «l’accordo non c’è» o che «non basta».
La coerenza non c’entra: è solo odio politico. Ad Anchorage lo spirito di Pratica di Mare è tornato. Allora fu un’eccezione, oggi può diventare una regola. E se così sarà, non sarà merito dei “volenterosi”, ma di chi, contro tutto e tutti, non ha mai smesso di credere che la pace si costruisce con il coraggio e la leadership, non con le menzogne della propaganda.
Caro Alessandro, starei più prudente
per ora la montagna ha partorito un topolino, poi speriamo in Dio.
Di stupidaggini il Donald ne ha già dette tante, speriamo che prima o poi arrivino anche dei fatti, nell’interesse dell’Occidente, mi auguro.
con affetto
Alessandro