Armani e i grandi marchi lascino Pechino e tornino al Duomo

La scomparsa di Giorgio Armani ci ha colti tutti un po’ impreparati nonostante i suoi novantun anni portati con quella grazia ineguagliabile. Non è solo il tramonto di un gigante, ma un invito quasi imperioso a ripensare l’intera parabola del Made in Italy, quel miracolo economico e creativo che ha reso l’Italia un faro nel mondo, prima che le sirene della globalizzazione ci trascinassero verso lidi più economici ma infinitamente meno ispirati.

E in questo momento di lutto collettivo, riemerge con prepotenza una fotografia del 1985, scattata da Adriana Mulassano davanti al Duomo di Milano, che non è solo un’istantanea sgranata dagli anni Ottanta, con i suoi colori tenui e quell’aria di ottimismo contagioso, ma un vero e proprio manifesto di ciò che eravamo e che potremmo, forse dovremmo, tornare a essere.

Immaginate la scena: le guglie gotiche che si stagliano come lance verso il cielo lombardo, simbolo di un artigianato secolare che sfida il tempo, e in primo piano un gruppo di stilisti, sorridenti e complici, vestiti con quell’eleganza noncurante che solo chi domina il proprio mestiere può permettersi, un mix di giacche destrutturate e pattern audaci che racconta già tutta la rivoluzione in corso.

Lì, al centro, c’è proprio lui, Armani, con quel sorriso carismatico che ha conquistato Hollywood e i boardroom globali, circondato da figure che non erano semplici colleghi, ma compagni d’armi in una battaglia per affermare Milano come capitale della moda, strappando lo scettro a Parigi con una miscela di innovazione e tradizione tutta italiana.

Pensate a Laura Biagiotti, la regina del cashmere, che con i suoi capi morbidi e avvolgenti elevava i tessuti del Nord a emblemi di lusso femminile, o a Mario Valentino, che dal suo Sud napoletano portava in scena la maestria della pelletteria, un ponte ideale tra le botteghe artigiane e i mercati internazionali, da non confondere con l’altro Valentino della foto, Garavani, maestro del rosso passione e dell’eleganza romantica, che incantava il mondo con abiti da sogno degni di un red carpet eterno, vestiti che sembravano usciti da un dipinto rinascimentale rivisitato in chiave moderna.

Accanto a loro, Gianni Versace, il calabrese visionario dal gusto barocco e sensuale, che vestiva le star con un’audacia che mescolava antico e pop, in un contrasto affascinante con il minimalismo di Armani, quasi a simboleggiare i due poli della creatività italiana: l’eccesso contro la sobrietà, eppure uniti da un filo comune, quello del “Sistema Moda” che la Camera Nazionale della Moda stava tessendo con pazienza, organizzando eventi e promozioni per triplicare l’export in quegli anni d’oro.

E poi Mariuccia Mandelli, in arte Krizia, con i suoi design geometrici ispirati all’arte, che sfidava le convenzioni come faceva Paola Fendi con le sue pellicce romane e le borse iconiche, quelle Baguette che sarebbero diventate status symbol, o Valentino Garavani, il maestro del rosso passione e dell’eleganza romantica, che incantava il mondo con abiti da sogno degni di un red carpet eterno, vestiti che sembravano usciti da un dipinto rinascimentale rivisitato in chiave moderna.

Non mancavano Gianfranco Ferré, l’architetto della moda con le sue strutture rigorose e il bianco immacolato che sembrava scolpito nel marmo, né Mila Schön, con le sue linee pulite e i tessuti pregiati che incarnavano una sobrietà chic quasi ascetica, o la coppia Missoni, Ottavio e Rosita, maestri del knitwear colorato con quei pattern zig-zag che evocavano famiglie unite e tradizioni artigiane tramandate di generazione in generazione.

E ancora Franco Moschino, il provocatore ironico che satireggiava il consumismo con capi irriverenti, e Luciano Soprani, con la sua eleganza understated nel prêt-à-porter, tutti legati da rivalità creative che si trasformavano in alleanze strategiche, condividendo radici nei distretti tessili di Como e Biella, collaborando in sfilate collettive per contrastare la concorrenza globale, attingendo al Rinascimento italiano per innovare nel ready-to-wear e rendere l’Italia una potenza non solo post-bellica, ma estetica e commerciale.

Ma oggi, mentre piangiamo Armani, quella foto ci guarda con un rimprovero muto: dove è finita quell’autenticità radicata nel territorio, quella produzione interamente italiana che garantiva qualità impeccabile e un’identità inimitabile? Negli ultimi decenni, troppi brand – persino alcuni di quei nomi immortalati nel 1985, come lo stesso Valentino Garavani con il suo impero di rossi passionati – hanno ceduto alla tentazione della delocalizzazione, inseguendo costi bassi in Cina e altrove, sacrificando l’essenza per profitti effimeri, come se un abito potesse mantenere la sua aura se cucito da mani lontane dalle nostre botteghe, lontane da quel know-how che ha reso Armani sinonimo di power dressing e Versace di sensualità barocca.

È una scorciatoia che erode il nostro vantaggio, che diluisce il Made in Italy in un brodo globale indistinto, e la grande sfida del nostro tempo, quella che l’eredità di Armani ci impone con urgenza, è creare le condizioni per riportare questi gloriosi marchi a produrre tutto in Italia, investendo in formazione per i giovani artigiani, in tecnologia per innovare senza tradire le radici, rendendo il Paese di nuovo competitivo e appetibile, attraendo talenti e investimenti invece di esportare posti di lavoro.

Perché, in fondo, è solo abbandonando la via facile che porta a Pechino che il Made in Italy tornerà al livello di quell’epoca d’oro catturata nella foto, tornando a essere se stesso, autentico e inimitabile, come quando Armani produceva nelle fabbriche milanesi con un rigore che oggi ci manca, un rigore che non era solo estetico ma etico, culturale, economico.

Armani è Armani solo se è Made in Italy, e questa verità, banale quanto una gonna – per parafrasare certi filosofeggiamenti modaioli – vale per tutti, inclusi i maestri come Valentino Garavani: un monito a politici, imprenditori e consumatori per scegliere la qualità sulle illusioni globali e sulle ubriacature ideologiche, prima che il nostro patrimonio si dissolva come un fuoco d’artificio alla fine della festa, lasciando solo rimpianti e guglie silenziose a testimoniare ciò che eravamo.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente in comunicazione strategica, esperto di branding politico e posizionamento internazionale, è autore di 12 libri. Inviato in tutte le campagne elettorali USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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