Strano popolo quello italiano, capace di solidarizzare con tutto e tutti ed incapace, molto spesso, di vedere quanto accade proprio sotto i suoi occhi. Mi riferisco in particolare alla condizione inaccettabile con la quale il nostro sistema di welfare accompagna nel percorso di formazione e crescita i bambini disabili e, soprattutto, il modo in cui sostiene i genitori e le famiglie.
Uno Stato moderno dovrebbe, infatti, preoccuparsi in maniera attiva del progetto di vita di questi bambini ed aiutare e sostenere le famiglie nel percorso di crescita ed integrazione e, invece, accade che tutto si risolve con qualche misura di sostegno al reddito, peraltro spesso insufficiente, o cono qualche prestazione riabilitativa, quasi mai efficace, con la quale il nostro paese pensa di aver adempiuto ai suoi compiti.
Si perché nessuno considera la solitudine di quelle mamme e di quei papà che spesso vedono rifiutati, ignorati o trattati con sufficienza i propri figli sin dai primi passi, veri cazzotti nello stomaco. Il dolore allontana, perché fa soffrire, perché mette a disagio e, quindi, a molti non importa se tutto ciò per queste famiglie è inaccettabile perché amano i figli in difficoltà esattamente come quelli che non hanno problemi e non possono accettare certi atteggiamenti.
La vita di queste persone cambia un minuto dopo aver gioito per la nascita di un figlio, esattamente nel momento in cui arrivano i primi responsi medici che trasformano la felicità in disperazione e ciononostante trasformano il dolore in un amore ancora più forte per quei fagottini che respirano ed hanno un’anima come tutti.
C’è lo sgomento di una diagnosi e poi la lotta, il tentativo di trovare soluzioni, i pellegrinaggi nei centri migliori, la ricerca su internet per trovare motivi di speranza o terapie miracolose e lunghe notti passate a dormire sulle sedie, accanto a culle stranamente senza sorrisi.
Nell’immediato si pensa che tutto passerà, che ogni cosa si rimetterà al suo posto. Solo dopo un po’ si renderanno conto che se ci sono bambini che saltano sul letto, che non stanno mai fermi o che fanno i capricci, di contro ci sono anche bambini che non saltano, che iniziano a camminare più tardi, che non parlano e che non sorridono.
E poi inizia il calvario attraverso i centri di riabilitazione, spesso privati, dove mamme e papà che con amorevole dedizione si dedicano ai propri figli li vedi correre da una terapia all’altra aggrappandosi come disperati ad una flebile speranza.
Centri di riabilitazione dove spessissimo bisogna scontrarsi con terapisti bravi solo a parlare e a ripetere ossessivamente quei quattro o cinque concetti che hanno imparato nei corsi di formazione, in larga parte privi di professionalità e poco interessati al loro lavoro, che considerano i bambini numeri e con i quali non cercano di entrare mai in sintonia se non, con ipocrisia, quando sono con le loro mamme.
E quando poi iniziano a frequentare la scuola i problemi iniziano subito dall’avvio dell’anno scolastico e vanno avanti per lungo tempo con un percorso accidentato, segnato dall’alternanza continua di insegnanti di sostegno per poche ore a settimana.
Devono solo sperare che ci sia una affettuosa partecipazione e presa in carico da parte dei compagni di classe, che possa consentire una piacevole integrazione perché la scuola ti lascia solo, i dirigenti pensano sempre a soluzioni quanto più comode per loro e non a quelle che sono migliori per questi ragazzi.
Mamme e papà che spesso arrivano la sera a casa con le gambe che cedono, ritrovandosi seduti, soli, scoraggiati in un mondo indifferente che guarda, ma non vede più perché insieme ai loro figli anche essi stessi sono diventati invisibili perché dopo un po’ di tempo quel dolore profondo, la difficoltà quotidiana del vivere, il pianto sommesso, non sono più una novità. Il dolore spesso si accompagna alla solitudine in un mondo che ci vuole tutti sorridenti, felici e che emargina chi, anche con grande dignità, vive un dramma.
Poi però pensano di essere stati chiamati ad un grande compito perché il loro sorriso, le loro carezze, il loro vederli e accoglierli per come sono, non per come vorrebbero che fossero, può aiutarli e regalare loro momenti di felicità e non importa se ormai mangiano qualsiasi cosa capiti, perché non hanno il tempo di pensare a calorie o a diete sane.
Poi crescono e con la crescita i problemi aumentano invece di diminuire. La possibilità di vederli impegnati, lo scontro quotidiano con il collocamento mirato dove, nonostante una buona legge, la n. 68/99, nata per collocare i disabili tenendo conto delle loro capacità residuali, l’impressione è che ci sia un muro invalicabile.
Iniziano i pensieri dei genitori sul dopo di loro, su quello che succederà quando ormai non ci saranno più e sulla totale assenza di una presa di coscienza sociale su questi nostri fratelli più sfortunati, un misto di sentimenti tra la rabbia e la paura.
Uno Stato più giusto non deve prescindere dal dovere sociale di dover garantire a tutti, anche ai più sofferenti, migliori condizioni di vita e tutti gli uomini che dedicano ed hanno dedicato la loro vita inseguendo il sogno di un mondo migliore devono essere capaci di vedere anche quello che gli altri non vedono perché, spesso, gli invisibili sono tra di noi.