Bella Ciao, il jingle dell’odio

Da decenni ci raccontano che Bella ciao fu il canto dei partigiani, la colonna sonora della Resistenza. Eppure gli storici onesti ricordano che non fu così. Nelle brigate si cantava altro: Fischia il vento, inni garibaldini, canti popolari. Bella ciao riappare solo negli anni Sessanta, rilanciata dal Nuovo Canzoniere Italiano, quando ormai la guerra era un ricordo e la sinistra culturale cercava un inno unico e spendibile. È allora che nasce il mito, artificiale e posticcio: non memoria viva, ma operazione politica.

Da Yves Montand ai Modena City Ramblers, da Syriza ai manifestanti cileni, fino al boom planetario di La Casa di Carta, la canzone ha viaggiato senza più radici. Per milioni di giovani non è mai stata un canto partigiano: è la colonna sonora di una serie Netflix. Un jingle, facile da urlare in piazza, remixare, ballare. È diventata una “lingua franca” della ribellione: generica, intercambiabile, svuotata del suo presunto significato storico.

E qui arriva il cortocircuito: settembre 2025, Utah, Stati Uniti. Un ventiduenne, Tyler Robinson, apre il fuoco e uccide Charlie Kirk, attivista conservatore. Sui bossoli incisi a mano, gli investigatori trovano scritte come “Hey fascist” e “Bella ciao, bella ciao ciao ciao”. Non un caso folklorico: un assassino che trasforma l’inno dell’“antifascismo” in marchio di morte.
Quel gesto rivela un problema più profondo: l’antifascismo non è rimasto memoria storica, ma è diventato ideologia militante. Se marchi l’avversario come “fascista”, allora pensi di avere il diritto di colpirlo. Se canti Bella ciao in quel contesto, non celebri la libertà: dichiari guerra al nemico politico.

Non è l’atto isolato di un folle. È l’esito di un clima culturale. Bella ciao oggi è la colonna sonora di black bloc, centri sociali, Antifa. È l’inno delle occupazioni abusive, dei cortei violenti, dei fumogeni nelle piazze. Non è più musica, è un codice. Una password ideologica che serve a distinguere i “giusti” dai “fascisti”. E se l’altro è “fascista”, allora tutto è permesso. Anche incidere un inno sui proiettili prima di sparare.

Ecco il punto: Bella ciao non è più un canto di libertà. È diventata il jingle dell’odio. Un marchio da esibire per legittimare l’intolleranza. Un simbolo che scivola dal mito alla violenza. Dalla festa popolare alla sparatoria politica.
Non serve più a ricordare la Resistenza – che tra l’altro non la cantava – ma a mantenere viva una guerra civile culturale. A nutrire l’antifascismo militante, quello che non cerca la democrazia, ma lo scontro permanente.

E allora diciamolo chiaramente: se un proiettile porta inciso “Bella ciao”, vuol dire che il problema non è solo un ragazzo squilibrato, ma un intero linguaggio politico che ha smarrito il limite. L’antifascismo militante è diventato il volto dell’intolleranza.
Chi oggi difende Bella ciao come “inno di libertà” dovrebbe avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: non è più un canto di liberazione, ma la colonna sonora di chi demonizza, di chi odia, di chi colpisce.

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