Bella, etero, bianca e bionda. Per gli invasati woke è nazismo

Qualche giorno fa ho intervistato Giuseppe Povia. Abbiamo parlato a lungo della nuova dittatura culturale: un regime senza divise né manganelli, ma con tastiere e hashtag, che impone il pensiero unico e cancella chiunque osi essere normale. Oggi tocca a Sydney Sweeney.

Attrice amatissima, volto di Euphoria e The White Lotus, talento cristallino e bellezza disarmante: Sweeney è finita sotto attacco per la campagna American Eagle. Il claim? «Sydney Sweeney has great jeans». Un brillante gioco di parole – jeans/genes – che i censori del politicamente corretto hanno trasformato in un atto d’accusa. Razzismo, sessismo, eugenetica. Pura follia.

Nel video, Sweeney dice che «i geni vengono trasmessi dai genitori alla prole… i miei jeans sono blu». Stop. Nessun messaggio subliminale, nessuna apologia, nessuna ideologia. Solo una battuta intelligente, costruita sul filo dell’ironia. Ma i sacerdoti woke non sorridono mai. Conoscono solo l’odio. E l’hanno riversato addosso a lei, rea di essere una donna bianca, bionda, con gli occhi azzurri e pure eterosessuale. Inaccettabile, per chi vuole sostituire l’estetica con l’ideologia.

I social sono esplosi: “campagna inquietante”, “spot suprematista”, “propaganda nazista”. Insomma, il delirio. La bellezza naturale diventa un crimine, il talento una colpa ed il successo un’offesa ai dogmi dell’inclusione a senso unico. Chi non si genuflette al nuovo catechismo, dev’essere crocifisso. Simbolicamente, per ora.

A differenza di altre campagne che hanno ceduto alla pressione woke – come quella di Bud Light con il travestito Dylan Mulvaney, che ha portato a un boicottaggio e al conseguente crollo verticale delle vendite – American Eagle ha resistito, smascherando per l’ennesima volta il vuoto morale del politicamente corretto. Mentre i nazisti woke gridavano allo scandalo, il mercato ha subito risposto con i numeri: +12% delle azioni il giorno dopo il lancio, +18% in una settimana.

Business of Fashion ha parlato di “effetto Sweeney”. Il pubblico vero – non quello educato ai manualetti di sociologia radical chic – ha premiato autenticità, semplicità, bellezza. Tre concetti che oggi fanno paura.

E non è nemmeno la prima volta che la Sweeney subisce questo linciaggio. Anni fa, per una festa di compleanno della madre dove alcuni invitati portavano cappellini con la scritta «Make Sixty Great Again», fu accusata di essere una simpatizzante trumpiana. Anche qui… parliamo del presidente tornato alla Casa Bianca con il voto di 77 milioni americani eppure, basta non omologarsi al pensiero unico che da 10 anni a questa parte non fa altro che insultarlo, per finire nel tritacarne mediatico.

Questo clima culturale è veleno puro. Ogni parola, ogni immagine, ogni gesto viene scomposto, analizzato, torturato fino a trovarci dentro il Male Assoluto. Ma non è inclusività, questa. È una nuova forma di censura, ancora più pericolosa perché si finge morale. La verità è che non vogliono diversità: vogliono uniformità. Non tolleranza, ma controllo. E la bellezza non autorizzata – quella che non chiede scusa – dev’essere spenta.

La Sweeney non ha bisogno di giustificazioni. È una star, e il suo talento brilla più forte del livore ideologico di chi la attacca. American Eagle, a differenza di altri brand, non si è piegata. Ha scommesso sull’autenticità e ha vinto. Il pubblico ha capito, compresa la Gen Z, quella non ipnotizzata dal mantra woke, che ha risposto con entusiasmo.

Il caso Sweeney non è che l’ennesimo monito: se non reagiamo adesso, a tutti i livelli, questi squilibrati ci propineranno un mondo dominato dei loro stereotipi da malati mentali, dove sarà reato ridere a una battuta o ascoltare una canzone “politicamente scorretta”.

Il loro ideale è il mondo di uno dei tanti film campioni d’incasso di Sylvester Stallone, “Demolition Man”, ambientato in un futuro distopico governato dal politicamente corretto: multe istantanee a ogni parolaccia, sesso, cibo tradizionale e addirittura la stretta di mano messi al bando perché ritenuti dannosi per la salute e polizia priva di armi.

Si tratta di una pellicola spassosissima, ma riguardarla oggi diventa inquietante, poiché molte di quelle che negli anni ‘90 non erano che provocazioni del tutto irrealistiche oggi, ahinoi, sono diventate l’ideale di società per la sinistra in tutto l’Occidente. Una vera e propria catastrofe culturale.

E allora basta ipocrisie. Basta genuflessioni. Basta silenzi imbarazzati. È arrivato il momento di reagire, di dire chiaramente che non accetteremo di vivere in un mondo in cui la normalità è sovversione, il talento è provocazione e la bellezza è crimine.

Non saremo spettatori passivi mentre un manipolo di talebani tenta di riscrivere la realtà a colpi di censura. Perché se oggi possono chiamare “nazista” una ragazza che sorride in un paio di jeans, domani potranno vietarci di sorridere e dopodomani vorranno insegnarci anche come pensare. Ma vi do una notizia: non glielo permetteremo.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente in comunicazione strategica, esperto di branding politico e posizionamento internazionale, è autore di 12 libri. Inviato in tutte le campagne elettorali USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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