Bisogna rispettare le sentenze. Lo dico senza ironia e senza esitazione. Perché, da sempre, credo che il garantismo non si debba invocare a corrente alternata: o vale per tutti, o non vale per nessuno.
Detto questo, c’è un fatto che non possiamo far finta di ignorare: se non ci fosse stata l’inchiesta “Angeli e Demoni”, quei nove bambini sottratti alle loro famiglie non ci sarebbero tornati. Questo è un punto fermo. Lo diciamo con la fermezza di chi continua a pensare che — al netto delle assoluzioni — in quella vicenda qualcosa di profondamente sbagliato c’era. Qualcosa che va ben oltre i singoli e che attiene al sistema.
Un sistema, quello della giustizia minorile, che presenta patologie strutturali. E non da oggi. Un sistema in cui alcune figure professionali si muovono da decenni in una zona grigia fatta di incarichi a pioggia, autoreferenzialità, consulenze incrociate, lobby pseudo-scientifiche e un’ideologia travestita da psicologia. Un sistema che ha costruito una narrazione tossica per cui ogni famiglia naturale è, in potenza, un luogo di abusi. Che ha scambiato la tutela per sospetto, la protezione per rieducazione, la cura per sottrazione.
E allora è giunto il momento di fare un passo ulteriore. Di chiederci: da dove vengono certi metodi? Qual è la matrice culturale, politica, antropologica di chi ha diffuso – e spesso imposto – questa idea per cui i figli non sono dei genitori, ma dello Stato?
L’abbiamo vista all’opera in tanti altri contesti: quando si cerca di sostituire “madre” e “padre” con “genitore 1” e “genitore 2”; quando si tenta di introdurre nelle scuole l’ideologia gender come unica chiave di lettura possibile della realtà; quando si colpevolizzano interi modelli educativi tradizionali in nome di un progressismo tossico e disumanizzante.
Non è più tempo di restare zitti davanti alla disfunzione narcotizzante con cui il sistema cerca di ridurre il cittadino a spettatore disilluso e inerte. Lo stesso vale per la giustizia minorile: il cittadino che tace di fronte alla sottrazione forzata di un figlio a una famiglia che lo ama è già complice.
Ciò che è accaduto a Bibbiano non è solo un caso giudiziario, ma un cortocircuito tra potere e ideologia. Un modello tecnocratico che, invece di aiutare, si arroga il diritto di decidere chi è “degno” di fare il genitore. Una deriva educativa fondata sull’idea di un uomo da rifare, da rieducare, da ricostruire secondo canoni stabiliti dall’élite del pensiero unico.
Oggi più che mai serve una rivoluzione del buonsenso. Una riforma radicale della giustizia minorile. Una difesa, senza se e senza ma, del ruolo della famiglia naturale come primo e insostituibile nucleo educativo. Perché i bambini vanno protetti, certo. Ma soprattutto vanno ascoltati. E riportati a casa, se qualcuno li ha strappati ingiustamente.
Il processo ha assolto molte persone, ma non il sistema. E finché quel sistema non sarà riformato alla radice, nessuna assoluzione potrà cancellare l’ingiustizia subita da quei bambini ingiustamente portati via dalle loro famiglie.