Carabiniere ucciso in servizio: dove sono ora quelli che urlavano contro lo Stato?

Ricordo bene quelle piazze. Piene, urlanti, indignate. Era solo qualche mese fa. Un giovane non si ferma a un posto di blocco. Parte l’inseguimento, finisce male. E immediatamente scatta il riflesso condizionato: colpa delle Forze dell’Ordine. Condanna preventiva. Processi sommari nei talk show e sui social. “Assassini in divisa”, “Stato assassino”, “Basta violenza della polizia”.
Poi sono arrivate le indagini. E come spesso accade, hanno detto altro. I Carabinieri non avevano colpe. Nessun eccesso. Nessuna responsabilità. Solo il dovere portato fino in fondo, in condizioni difficili. Ma quella verità, quella che dovrebbe importare, è scomparsa come fumo nel vento. Nessun corteo di scuse. Nessuna piazza per chiedere giustizia… per i giusti.

Ora il copione si ripete. Ma al contrario.
Questa volta a terra c’è un uomo in divisa. Si chiamava Carlo Legrottaglie. Brigadiere capo dei Carabinieri, 59 anni. È morto il 12 giugno 2025 mentre inseguiva due rapinatori in fuga nelle campagne tra Francavilla Fontana e Grottaglie, in provincia di Brindisi. Era il suo ultimo giorno di servizio: la pensione era fissata per il 7 luglio. La tavola era già apparecchiata a casa, dice la moglie. Lascia due figlie gemelle di 14 anni.
Ucciso da chi non si era fermato. Ucciso mentre faceva ciò che ha sempre fatto: il proprio dovere.

E le piazze?
Vuote.
I megafoni?
Muti.
I professionisti dell’indignazione? Improvvisamente assenti.

Perché se a terra ci fosse stato il criminale, le stesse piazze si sarebbero riempite di nuovo. Di slogan, di odio, di accuse. Si sarebbero indignati con la bava alla bocca. Perché nell’ideologia dei giustificazionisti di professione, la colpa è sempre dello Stato. E chi rappresenta lo Stato – Carabinieri, Polizia, Penitenziaria, Guardia di Finanza – è sempre, e comunque, il nemico.

È una doppia morale infame. Tossica. Codarda.
Chi sfugge all’alt è “una vittima”. Chi lo insegue e muore nel farlo, invece, scompare dalle cronache, dai post, dalle lacrime televisive.
Ma Carlo Legrottaglie era un uomo, un padre, un servitore. E ora è un simbolo.

Chi parla ogni giorno di “valori”, “giustizia sociale”, “umanità” dovrebbe oggi inchinarsi davanti a quell’uomo a terra. Perché è morto per proteggere anche loro, quelli che lo disprezzano.
E invece tacciono. Muti nella loro sporca e vigliacca ipocrisia.

C’è qualcosa di marcio nel nostro dibattito pubblico quando la vita di un uomo vale di più o di meno a seconda della sua uniforme. C’è qualcosa di vile in una società che si accorge di un morto solo se può usarlo contro le Forze dell’Ordine.
E c’è qualcosa di profondamente sbagliato in un’Italia in cui un carabiniere può morire nell’indifferenza generale.

Noi non ci stiamo.
Noi onoriamo chi ci difende.
Noi ricordiamo Carlo Legrottaglie come un eroe. Perché questo era. Un uomo che non ha scelto la comodità, ma il dovere. Che non si è risparmiato neanche nel suo ultimo giorno. Che ha affrontato il pericolo per proteggere la collettività.
E che non ha fatto ritorno.

Chi tace oggi, porta il peso della propria incoerenza.
E noi continueremo a parlare, a scrivere, a ricordare.
Perché il sacrificio di un uomo giusto vale più del rumore di cento ipocriti.

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Leo Valerio Paggi
Leo Valerio Paggi
Leo Valerio Paggi per La Voce del Patriota.

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