Ci lascia Emilio Fede, l’italiano che anticipò Fox News

Con la morte di Emilio Fede si chiude una stagione irripetibile del giornalismo italiano: quella che precede e accompagna l’avvento della rivoluzione digitale, senza però coglierne fino in fondo la portata. Fede fu tra i primi a rompere con il dogma della neutralità, scegliendo un approccio schierato e dichiarato. In questo, anticipò l’intuizione che Roger Ailes avrebbe trasformato in paradigma con Fox News: un’informazione che non finge imparzialità, ma dichiara la propria visione e costruisce attorno ad essa un racconto coerente.

Il parallelo con Ailes è utile per comprendere il peso della sua figura. In Italia, Fede guidò il TG4 con una linea editoriale chiaramente vicina al centrodestra e a Silvio Berlusconi. Negli Stati Uniti, Ailes costruì un network capace di influenzare su scala globale il discorso politico, intercettando milioni di cittadini che si sentivano alienati dai media liberal. Fede usava la sua personalità e la teatralità della diretta, diventando lui stesso personaggio e filtro emotivo. Ailes operava dietro le quinte, con una macchina mediatica studiata nei minimi dettagli. Due stili diversi, ma la stessa intuizione di fondo: dichiarare la propria prospettiva invece di nasconderla.

Davanti alla telecamera, Fede era una sorta di Tucker Carlson: giornalista di razza e grande intrattenitore. Capace di mescolare cronaca, commento ed emozione, rendeva la notizia uno spettacolo che informava e, al tempo stesso, intratteneva. Sapeva creare un rapporto diretto con lo spettatore, rompendo la barriera fredda del telegiornale tradizionale. In questo stava la sua forza, ma anche la ragione delle critiche che lo accompagnarono: partigianeria, eccesso di enfasi, sensazionalismo.

Emilio Fede attraversò un’epoca in cui il direttore di un telegiornale era un’autorità indiscussa. Ricordo due momenti in particolare: l’annuncio dell’inizio della Guerra del Golfo, il 16 gennaio 1991, e la lunga diretta dell’11 settembre 2001. In quelle ore la sua voce divenne quella del Paese, capace di trasmettere non solo informazioni ma emozioni, paure e consapevolezze. Era l’apice dell’informazione verticale: pochi parlavano, milioni ascoltavano.

Poi arrivò la rivoluzione digitale. Il web aprì spazi di orizzontalità, gli smartphone resero la notizia immediata e onnipresente, i social la trasformarono in un flusso ininterrotto, virale e frammentato. Non più una mediazione autorevole, ma una miriade di voci, dove spesso prevale la reazione sull’analisi, l’opinione sul fatto, l’emotività sulla verifica. Il risultato è stato un cambiamento radicale: la notizia non ha più bisogno di un direttore che la filtri, ma di un algoritmo che la distribuisca.

Eppure i media mainstream, travolti da questo passaggio, non hanno saputo reinventarsi. Invece di accettare la sfida e ridefinire il proprio ruolo, hanno scelto di difendere il monopolio perduto con la censura, la distorsione e la propaganda. Hanno continuato a spacciarsi per “oggettivi” mentre diventavano sempre più ideologici, confondendo il giornalismo con l’attivismo. In questo modo hanno perso l’unico capitale che contava: l’autorevolezza.

Oggi il confronto con la stagione di Emilio Fede è impietoso. Quel giornalismo aveva una cifra chiara: la coerenza tra visione e racconto. Oggi assistiamo a un’informazione che rincorre il sensazionalismo, che predica neutralità e poi applica filtri politici, che ha smarrito la missione di raccontare la realtà per trasformarsi in strumento di condizionamento. Non è un caso se milioni di persone hanno smesso di fidarsi e hanno cercato altrove ciò che non trovavano più nelle redazioni tradizionali.

È da questa crisi che nasce la necessità di un nuovo paradigma: lo smart journalism. Un giornalismo che sfrutti la velocità del digitale senza rinunciare alla profondità, che usi i social come strumenti e non come gabbie, che torni a costruire un rapporto autentico con le persone. Non la rincorsa sterile al click, ma la capacità di dare contesto, prospettiva, significato.

Con Emilio Fede se ne va l’ultimo testimone di un’epoca in cui il giornalismo era guida e filtro della realtà. La sua parabola, con luci e ombre, ci ricorda che l’informazione non è mai neutrale, ma è sempre narrazione. E ci ricorda anche che senza autorevolezza, senza coerenza e senza coraggio, il giornalismo è destinato a dissolversi.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente in comunicazione strategica, esperto di branding politico e posizionamento internazionale, è autore di 12 libri. Inviato in tutte le campagne elettorali USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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