Buongiorno a tutti e grazie per questa accoglienza, commovente per me.
Consentitemi di ringraziare e salutare soprattutto il Presidente della Fondazione Meeting, Bernhard Scholz, di rivolgere un ringraziamento speciale a lui, alla grande famiglia del Meeting, non soltanto per l’invito ma per un evento che da quasi mezzo secolo segna un momento fondamentale nel dibattito politico e culturale della Nazione. Voglio salutare i Ministri, i parlamentari, il mio amico Maurizio Lupi, voglio ringraziare le autorità civili, militari e religiose presenti, oltre che il Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, Davide Prosperi, a cui va il mio abbraccio.
Per me è un piacere, un onore essere qui con voi oggi, perché sono convinta che quello che accade ogni anno in questi padiglioni sia qualcosa di estremamente prezioso e so bene che cosa significhi organizzare eventi di questo tipo, sono testimone personalmente di quanto lavoro, di quanto sacrificio, di quanta elaborazione, di quanta dedizione richiedano e confesso che ho sempre guardato al Meeting con ammirazione perché è la piazza del dialogo per eccellenza, come dice il titolo stesso dell’incontro.
È stato così anche in anni nei quali la polarizzazione ideologica era più marcata, anche nei anni nei quali era più complicato superare gli steccati per riuscire ad andare al cuore dei problemi reali delle persone, delle famiglie e delle imprese. Leggo ogni volta, negli occhi, nei volti, nelle braccia, dei tantissimi volontari che danno vita a questa manifestazione e che scelgono di dedicare un pezzo della propria estate e non solo per allestire questo evento, una passione che solo chi conosce il senso di appartenenza a una comunità può riconoscere.
Senza i volontari semplicemente non esisterebbe il Meeting e io voglio per questo tributare a tutti loro il mio di applauso. perché sono l’anima stessa di questo luogo, il fuoco che alimenta ogni edizione e sono oggettivamente un vero spettacolo.
“Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi”. Avete scelto per questa edizione questa splendida frase di Thomas Stearns Elliot, un autore a me molto caro, un cristiano, un conservatore, diventato punto di riferimento nella storia della letteratura fino al premio Nobel nel 1948. Nei Cori da “La Rocca” Elliot racconta l’impresa di alcuni operai a cui è assegnato il compito di costruire una nuova chiesa in terra ostile, una delle tante periferie urbane dove la chiesa viene cancellata con un tratto di penna. Gli operai incontrano imprevisti , difficoltà di ogni tipo, ma non si arrendono e alla fine riescono nella loro impresa. Costruire una chiesa in quel deserto, un luogo dove gli uomini sono ridotti a bottiglie vuote, ad alveari senza miele, che vivono forse tranquilli però senza provare né sazietà né disperazione. Un mondo vinto dal nulla, dove non c’è spazio per una tensione spirituale, per un’aspirazione verticale, abitato da individui anestetizzati a cui non interessa altro che trovare un posto per fare un picnic, o smarrirsi con potentissime auto su strade secondarie.
E qui io potrei trovare delle similitudini con Atreju, il ragazzo de “La storia infinita” che lotta contro “il nulla che avanza” e che come si sa ha avuto un ruolo importante nell ‘immaginario della mia formazione culturale, ma il punto è che siamo di fronte a una potente metafora della nostra epoca, un’epoca nella quale si vorrebbe omologare tutto, trasformare ognuno di noi in un consumatore perfetto, un vuoto a rendere che può essere riempito da qualsiasi cosa si voglia, individui senza identità, senza memoria, senza appartenenza nazionale, familiare o religiosa, individui in cui i desideri cambiano in continuazione e che quindi non amano più nulla, individui in sostanza nella cui esistenza non c ‘è più nulla per cui valga la pena impegnarsi, costruire o combattere. Gli operai di Elliot fanno una scelta diversa.
Io ho capito l’esortazione che fate a tutti con il titolo di questo Meeting: noi siamo chiamati nei deserti fisici ed esistenziali del nostro tempo a seguire lo stesso cammino di quegli operai e per chi come me ha responsabilità di Governo quell’esortazione comporta molte cose, costruire con mattoni nuovi significa comprendere il tempo nel quale si vive, saper calare in quel tempo il proprio sistema di valori, significa costruire con mattoni che sappiano resistere ai venti di quell’epoca, che sappiano resistere alle sue tempeste, significa saper agire con metodi nuovi, saper saltare le tante, troppe paludi che si trovano sul percorso, soprattutto in Italia, dove le migliori intenzioni vengono spesso frenate da meccanismi bloccati, da processi farraginosi, da rendite di posizione, da preconcetti ideologici.
Il campo nel quale abbiamo dimostrato di voler stare in questi ormai quasi tre anni alla guida della Nazione non è il campo delle ideologie, non è il campo delle utopie, non è il campo di chi pensa che sia possibile modellare la realtà sulla base delle proprie convinzioni. Il campo che abbiamo scelto è il campo del reale, perché come ci ha insegnato Jean Guitton “mille miliardi di idee non valgono una sola persona. Noi dobbiamo amare le persone, è per loro che bisogna vivere e morire”. Questo è il campo nel quale intendiamo giocare, mettendo nelle nostre decisioni quella umanità, quella concretezza che solo chi non perde il contatto con il mondo reale può dimostrare.
In questi quasi tre anni abbiamo provato a portare i nostri “mattoni nuovi”, abbiamo portato mattoni nuovi nella postura internazionale dell’Italia. Voi sapete quante energie io abbia personalmente speso a quella che considero una missione. E quella missione è fare in modo che l’Italia si riappropri del posto che le spetta nel mondo. Forte, fiera. schietta, leale, in una parola: autorevole. E oggi sono fiera che l’Italia venga vista così a livello internazionale, che non venga più considerata la grande malata d’Europa, ma addirittura un modello di stabilità, di serietà di Governo, che gli investitori internazionali ci considerino una Nazione sicura, tanto che ormai i tassi di interesse che paghiamo sul nostro debito sono in linea con quelli che si pagano in una Nazione come la Francia, che le istituzioni comunitarie certifichino che l’Italia è la prima in Europa per l’attuazione del PNRR o che la stampa internazionale, che non è mai stata particolarmente benevola verso di noi, sia portata spesso a considerarci un ‘anomalia positiva.
Potrei ricordare i tanti profeti di sventura che indicavano proprio nella politica estera l’eventuale tallone di Achille di un governo Meloni, ma non mi interessa questo, mi interessa piuttosto che molti di loro abbiano dovuto fare i conti con una realtà diversa e posso solo augurarmi che in cuor loro siano tutti contenti di essersi sbagliati. E spero, e però dobbiamo anche essere onesti, e allora a dire la verità non è merito mio o del Governo se l’Italia è considerata oggi una protagonista. Noi non abbiamo fatto altro che essere consapevoli di quello che rappresentavamo. della grande Nazione che abbiamo l’onore di guidare. Questa consapevolezza è l’unica vera differenza con il passato e questa consapevolezza la portiamo su tutti i tavoli, a partire da quelli relativi alle gravissime crisi internazionali che stiamo vivendo.
Finalmente dopo tre anni e mezzo in cui la Russia non ha dato alcun segnale di dialogo, in cui pretendeva banalmente la capitolazione di Kiev, si sono aperti spiragli per un percorso negoziale, spiragli che sono stati resi possibili grazie a un’iniziativa del Presidente degli Stati Uniti, ma ancora di più grazie all’eroica resistenza del popolo ucraino e al compatto sostegno che l’Occidente, l ‘Europa e l’Italia hanno garantito, nonostante un ‘opinione pubblica non sempre convinta. In questa opportunità di dialogo verso una pace giusta, per quanto complicata, dobbiamo credere fortemente portando il nostro contributo di idee e di proposte. Noi abbiamo sempre sostenuto, l’Italia ha sempre sostenuto, che la chiave di volta per ogni percorso di pace fosse l’attivazione di robuste garanzie di sicurezza per l’Ucraina. capaci di prevenire nuove guerre, nuove aggressioni, è il punto di partenza, è il presupposto non scontato che è stato stabilito a Washington nel recente incontro tra americani, europei e ucraini. E a proposito di mattoni nuovi, la proposta italiana, basata su un meccanismo ispirato all’articolo 5 della Nato, è attualmente la principale sul tavolo. Un possibile contributo alla pace che la nostra Nazione ha fornito e penso che dobbiamo esserne fieri.
Pace con giustizia e sicurezza è anche quella che stiamo perseguendo con i partner europei e occidentali a Gaza. So che avete aperto questa edizione del Meeting con un emozionante incontro tra una donna israeliana, madre di un rapito e una donna palestinese. Noi non abbiamo esitato un solo minuto nel sostenere il diritto alla sicurezza e all’autodifesa di Israele dopo il massacro del 7 ottobre, un orrore che resterà sulla coscienza dei terroristi che da troppo tempo si fanno scudo dei civili a Gaza. Però allo stesso tempo non possiamo tacere ora di fronte a una reazione che è andata oltre il principio di proporzionalità, mietendo troppe vittime innocenti, arrivando a coinvolgere anche le comunità cristiane che sono da sempre un fattore di equilibrio nella regione e che ora sta mettendo a repentaglio in modo definitivo anche la prospettiva storica della soluzione dei due popoli in due stati. Voglio approfittare di questa occasione anche per dire che condanniamo l’ingiustificabile uccisione di giornalisti a Gaza. Un inaccettabile attacco alla libertà di stampa e a tutti coloro che con coraggio rischiano la vita per raccontare il dramma della guerra.
Da Nazione amica di Israele e del popolo ebraico chiediamo a tutte le Nazioni, a tutte le forze politiche di fare ogni pressione possibile su Hamas affinché rilasci gli ostaggi israeliani ancora trattenuti e chiediamo a Israele di cessare gli attacchi, di fermare l’occupazione militare a Gaza, di porre fine all’espansione degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, di consentire il pieno accesso degli aiuti umanitari nella Striscia, di partire dalle proposte dei paesi arabi per definire un quadro di stabilità e sicurezza. Però rivendichiamo con orgoglio il ruolo ricoperto dall’Italia in questa crisi, perché siamo la Nazione europea che si è adoperata di più sul fronte umanitario. Ringrazio per questo soprattutto il Ministro degli Esteri Antonio Tajani. Siamo il primo paese non musulmano al mondo per evacuazioni sanitarie da Gaza, perché c’è chi scrive le mozioni e urla gli slogan e c’è chi salva i bambini e io sono fiera di fare parte dei secondi.
Rivendichiamo il ruolo pragmatico, propositivo dell’Italia sullo scacchiere internazionale e in seno all’Unione europea. Un’Unione europea che sembra sempre più condannata all’irrilevanza geopolitica, incapace di rispondere efficacemente alle sfide di competitività poste dalla Cina e dagli Stati Uniti, come ha giustamente rilevato Mario Draghi qualche giorno fa da questo palco. Ora, io che sono passata dall’essere un’impresentabile per aver collocato il mio partito all’opposizione del Governo Draghi all’essere definita una “draghiana di ferro” mi divertirò domani a leggere i giornali per capire in quale delle due caselle verrò inserita questa volta.
Però in realtà non mi interessa questo. Mi interessano invece i temi che sono stati posti. Mi interessa rilevare che molte delle critiche che ho sentito rispetto all’attuale condizione dell’Unione europea le condivido così tanto da averle formulate molto spesso nel corso degli anni, venendo per questo aspramente criticata anche da molti di coloro che oggi si spellano le mani. Ma sapevo che prima o poi tutti avrebbero dovuto fare i conti con la realtà, perché questa fase di enormi mutamenti, una fase nella quale sono saltati i paradigmi su cui abbiamo visto costruire l’Unione Europea e democrazie decidenti, autocrazie ciniche ci sfidano ogni giorno, ci offre per paradosso una grande opportunità. Un’opportunità che noi possiamo cogliere solo se l’Unione europea sarà capace di riscoprire la propria anima e le proprie radici. Sì, anche quelle culturali, anche quelle religiose colpevolmente negate anni fa. Banalmente, perché se non sai chi sei, non puoi neanche definire il tuo ruolo nel mondo, la tua missione nella storia. La burocrazia non ci tirerà fuori dalla tempesta. La politica può farlo.
Le regolamentazioni non ci renderanno più forti, le idee possono farlo. Le ideologie cieche non libereranno le nostre società, i valori di riferimento applicati alla realtà che viviamo possono farlo. Però, dobbiamo sapere che tornare protagonisti della storia e del proprio destino non è facile, non è indolore, non è gratis.
Bisogna, ad esempio, essere disposti a pagare il prezzo della propria libertà e della propria indipendenza, dopo che per decenni noi abbiamo appaltato agli Stati Uniti la sicurezza europea, a costo di una inevitabile dipendenza politica.
Il mondo politico dal quale provengo ha sempre posto il problema, assumendosi la responsabilità, anche il costo politico in termini di consensi, di sostenere che solo chi è in grado di difendersi da solo è veramente libero nelle scelte che fa.
Abbiamo parlato dell’esigenza di una colonna europea della Nato, di pari forze e dignità rispetto a quella americana, quando questi temi non erano di moda. E consentitemi di dire anche qui che mi fa un po’sorridere che coloro che oggi rivendicano la necessità di emanciparsi dagli Stati Uniti siano gli stessi che da sempre si oppongono a una politica di indipendenza in termini di difesa e sicurezza. Perché, signori, le due cose banalmente non stanno insieme.
Allora, costruire con mattoni nuovi in Europa significa soprattutto ripartire dalla Politica – sono d’accordo anche su questo -, che è visione, passione, conflitto e sintesi, partecipazione e democrazia. Significa ridurre la burocrazia soverchiante, significa sostenere la competitività delle imprese per combattere la desertificazione produttiva. Significa rimettere l’Uomo, e non l’ideologia, al centro della natura. Significa investire sulle proprie filiere per ridurre le troppe dipendenze strategiche che abbiamo. Significa porsi il problema demografico perché, signori, altrimenti, tra non molti decenni, non ci sarà alcuna civiltà europea da difendere.
Significa – come dicevo – costruire un proprio modello di sicurezza, integrato nel sistema di valori e di difesa dell’Occidente. Significa, insomma, delineare un’Europa del pragmatismo e del realismo, andando oltre il dibattito un po’stantio tra più Europa e meno Europa.
Perché la vera sfida è un’Europa che faccia meno e che lo faccia meglio, che non soffochi gli Stati nazionali, ma ne rispetti i ruoli e le specificità, che non annulli le identità ma le sublimi in una sintesi virtuosa e più grande. Uniti nella diversità è, del resto, il motto dell’Unione europea e io penso che sia un motto al quale dovremmo tutti ispirarci davvero.
Perché i “nuovi mattoni” sono anche un modo nuovo di vivere identità antiche, culturali, spirituali, religiose. Io non mi sono mai fidata di chi si vergogna della propria identità, però non mi fido neanche di chi non è disposto a viverla in modo nuovo. Eliot diceva che la tradizione va sempre reinventata. Essere conservatori non vuol dire costruire con mattoni vecchi, significa cercare sempre mattoni nuovi per continuare a edificare una casa che non hai iniziato tu. Significa amare le linfe di una storia che altri hanno avviato, desiderare che grazie al tuo contributo quella storia produca frutti sempre più abbondanti.
E la nostra casa, a cui aggiungere mattoni nuovi, è l’Occidente. Non – come ho detto diverse volte – un luogo fisico, ma un sistema di valori nato tra l’incontro tra la filosofia greca, il diritto romano e l’umanismo cristiano. Sintesi che ha fertilizzato il terreno dove è cresciuta la separazione tra Stato e Chiesa, dove gli uomini nascono uguali e liberi, dove la vita è sacra e la cura per i più fragili è un valore assoluto.
Questo è quello che siamo. È quello che siamo. Ed è quello che ha permesso alla nostra civiltà di progredire nei secoli e di essere un modello da seguire.
E, signori, l’Occidente ha ancora molto da dire, l’Occidente ha ancora molto da dare. Ma serve consapevolezza e serve umiltà, serve sapersi mettere in discussione, serve rispetto per noi stessi, condizione imprescindibile per rispettare anche gli altri.
E l’Italia cerca di fare la sua parte anche in questo, per mostrare la strada.
Penso che abbiamo portato mattoni nuovi in Africa, creando un modello di cooperazione che rifugge tanto l’approccio paternalistico quanto quello predatorio, costruendo invece partenariati basati sul rispetto reciproco, sulla fiducia, sulla condivisione, cioè sulla capacità di guardarsi negli occhi da pari per trovare insieme gli ambiti nei quali poter fare la differenza e avere benefici reciproci.
Perché a differenza di altri attori non abbiamo secondi fini, non ci interessa sfruttare il continente africano per le ricchissime materie prime che possiede, utilizzandole per accrescere il nostro benessere. Ci interessa invece che l’Africa prosperi insieme a noi processando le sue risorse, coltivando i suoi campi, dando lavoro e una prospettiva alle sue energie migliori, potendo contare su governi stabili e società dinamiche. E abbiamo lavorato per realizzare questo approccio, l’abbiamo fatto soprattutto attraverso il Piano Mattei per l’Africa, cioè la strategia che l’Italia porta avanti assieme a diverse Nazioni africane per favorire investimenti di qualità, grandi progetti in campo infrastrutturale, energetico, produttivo e soprattutto di valorizzazione del capitale umano. Perché la formazione e l’educazione sono due costanti dei progetti che abbiamo lanciato, dal grande Centro di formazione e innovazione in ambito agricolo che nascerà in Algeria, fino all’impegno che stiamo portando avanti con la Fondazione ASVI in Costa d’Avorio per raggiungere oltre 800 scuole primarie e circa 200 mila bambini e ragazzi che vivono nei contesti più difficili.
Però quello che vogliamo costruire non è un semplice pacchetto di progetti. È un nuovo patto tra Nazioni libere, che scelgono di cooperare perché credono nei valori della centralità della persona, della dignità del lavoro e della libertà. E sta diventando un modello anche per molti altri Paesi.
E sono fiera che quel modello coinvolga le energie migliori della nostra Nazione, in un gioco di squadra che mette insieme tutto il Sistema Italia, il settore privato, la società civile, il Terzo Settore. Ed è la prova che quando l’Italia agisce con visione e concretezza, ma anche unita, riesce a fare la differenza.
Abbiamo posato “mattoni nuovi” sul fronte delle migrazioni, contrastando gli arrivi irregolari e ampliando quelli regolari, in una cornice di serietà e rigore come non era mai avvenuto prima. E lo abbiamo fatto perché l’immigrazione regolata e legale può rappresentare una ricchezza per ogni Nazione, ma l’immigrazione illegale e incontrollata è un danno per qualsiasi società.
Anche qui, il punto è che non ci interessa sfruttare la migrazione per avere mano d’opera a basso costo da impiegare nei nostri sistemi produttivi. Ci interessa, invece, combattere le cause profonde che spingono tanti, troppi giovani, a pagare trafficanti senza scrupoli per affrontare viaggi potenzialmente letali alla ricerca di una vita migliore che quasi mai le nostre società riescono a garantire.
Ci interessa codificare e difendere il diritto a non dover emigrare, perché è assolutamente vero quello che ci ricorda un grande uomo di Chiesa come il Cardinale Robert Sarah, quando dice che chi ritiene le migrazioni necessarie e indispensabili compie, di fatto, un atto egoistico. “Se i giovani lasciano la loro terra e il loro popolo – si chiede Sarah – rincorrendo la promessa di una vita migliore, che ne sarà della storia, della cultura, dell’esistenza del Paese che hanno abbandonato?”.
Per questo l’Italia, con questo Governo, ha svolto un ruolo che io considero decisivo anche per cambiare l’approccio europeo nei confronti di questa sfida.
Perché se oggi ci si pone come priorità l’attuazione dei partenariati paritari con i Paesi di origine e transito, la difesa dei confini esterni dell’Unione europea, il rafforzamento della politica dei rimpatri, la costruzione di soluzioni innovative, questo lo si deve al nostro coraggio, alla nostra determinazione.
Sono scelte che hanno portato a un duplice risultato, come sapete: abbattere drasticamente gli ingressi irregolari ma, soprattutto, ridurre il numero dei morti e dei dispersi in mare. Ed è questo il risultato che più ci deve rendere orgogliosi, perché non c’è niente di più importante che salvare una vita umana o strapparla agli artigli dei trafficanti di esseri umani.
E voglio dire con chiarezza, in apertura di questa stagione, che ogni tentativo che verrà fatto di impedirci di governare questo fenomeno con serietà e determinazione sarà rispedito al mittente.
Non c’è giudice, politico o burocrate che possa impedirci di far rispettare la legge dello Stato italiano, di garantire la sicurezza dei nostri cittadini, di combattere gli schiavisti del terzo millennio, di salvare vite umane.
Perché quello che vogliamo dimostrare è che la politica può tornare autorevole. Però per farlo devi saper mettere la faccia sulle sfide difficili.
È quello che abbiamo fatto, ad esempio, in quei territori della nostra Nazione che erano stati colpevolmente abbandonati dallo Stato e lasciati al degrado e alle mafie. Stiamo ricostruendo con mattoni nuovi, restituendo speranza, riportando la gioia delle cose normali, come un parco per far giocare i bambini, un asilo dove far crescere i figli, un centro dove fare sport, un’Università nella quale valorizzare il talento dei ragazzi.
Siamo partiti – come sapete – da Caivano, e in quel territorio abbiamo dimostrato che lo Stato può mantenere la parola data, può rispettare un impegno, può mostrare il suo volto credibile.
Perché, se ci pensate, in fondo è banalmente questo che i cittadini si aspettano dalla politica: il coraggio di sapere affrontare i problemi più complessi anche a costo di fallire, l’ostinata determinazione a servire il bene comune, mettendo sempre al centro le persone e in particolare i bisogni dei più deboli. Perché non c ‘è un altro modo, come ci ha ricordato di recente anche Papa Leone, per rendere la politica “la forma più alta di carità”.
Ma quello che abbiamo fatto a Caivano non è che il punto di partenza di un percorso molto più esteso, che vuole avviare in tutte quelle realtà dove lo Stato aveva preferito indietreggiare piuttosto che rischiare. Ora sono otto i territori dove stiamo concentrando il nostro lavoro, territori nei quali stiamo estendendo il modello che a Caivano ci ha permesso, ad esempio, anche di offrire agli adolescenti alternative vere e concrete alle piazze di spaccio, alla criminalità, alla violenza, all’emarginazione.
Certo la sfida abbiamo di fronte è una sfida enorme, nessuno, ovviamente, di noi è tanto arrogante da sostenere che i problemi sono stati risolti, ma è un dato di fatto che questo Governo ha scelto – anche su questo fronte – di non girarsi dall’altra parte, come invece molti altri avevano fatto.
Vogliamo ricostruire con i mattoni nuovi della verità, con il coraggio di dire cose banali, che per troppo tempo ideologie irragionevoli hanno tentato di negare. Come che la droga fa schifo, distrugge la vita, ti promette qualcosa che non può darti e mentre lo fa ti riduce a uno schiavo. Ma anche, dall’altra parte, che se cadi nella dipendenza non sei perduto. Che se chiedi aiuto troverai qualcuno disposto a prenderti per mano, a condividere la tua lotta, le tue resistenze, le tue oscurità per costruire insieme un futuro di libertà.
Una di quelle realtà è qui vicino, è San Patrignano. Io sarò loro ospite tra poco, ma ce ne sono davvero moltissime.
Messaggi chiari per carità coraggiosi per un tempo come questo, che però sono accompagnati anche dai fatti. Come gli investimenti record sul fronte della prevenzione alla tossicodipendenza – 165 milioni, circa il doppio di quanto disponibile negli anni precedenti -, il sostegno concreto, appunto, a un mondo fatto di comunità, di servizi, di volontari, di operatori, che per troppo tempo ha operato nell’indifferenza delle istituzioni, e non desiderava altro che lo Stato fosse schierato al suo fianco. A quelle realtà voglio confermare che lo Stato al loro fianco oggi c’è. E non importa quanto sia faticoso, perché è una fatica meravigliosa – carica di amore, di speranza e di futuro.
E perché la rassegnazione per noi non è mai stata un’opzione. Non lo è neanche di fronte al processo che a molti sembra ormai ineludibile di glaciazione demografica delle società occidentali. Anche qui, come ho detto molte volte, il declino non è l’unico scenario possibile. Il declino è sempre una scelta. Combattere quel declino è la nostra scelta. E faremo ogni sforzo necessario a ricostruire una società amica della famiglia, amica della natalità, nella quale la genitorialità sia un valore socialmente riconosciuto, protetto e sostenuto.
Nella quale la famiglia torni a essere riconosciuta e valorizzata per il ruolo insostituibile che svolge. Lo dico anche annunciando che una delle priorità sulle quali intendiamo lavorare insieme al Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, che ringrazio, è un grande piano casa a prezzi calmierati per le giovani coppie. Perché senza una casa è difficile costruire una famiglia.
Nonostante la scarsa disponibilità di risorse che avevamo, questo Governo non ha rinunciato a compiere scelte coraggiose, garantendo nel solo 2024 benefici netti per le famiglie per oltre 16 miliardi di euro, aumentando i mesi di congedo parentale retribuito all’80%, rendendo l’asilo nido gratuito per il secondo figlio, solo per citare alcuni provvedimenti, che rendono però il tema della conciliazione vita-lavoro un fatto concreto e non semplicemente uno slogan decantato.
Però dobbiamo dirci anche che tutto questo rischia di essere vano senza un clima culturale nuovo e diverso, che dobbiamo costruire insieme. Cattivi maestri hanno proclamato per decenni che la genitorialità era un concetto arcaico e patriarcale, che andava combattuto e sostituito da valori più moderni, solo che non c’è nulla di moderno nell’affittare l’utero di una donna povera, nel privare per legge un bambino della figura del padre o della madre, nel far passare il messaggio che la genitorialità è nemica dell’affermazione personale o addirittura che i figli non vanno messi al mondo perché inquinano. Solo l’ignoranza può sostenere queste tesi deliranti e con l’ignoranza non si può costruire nessuna modernità.
Il lavoro è una chiave di volta di questa impalcatura. E particolarmente il lavoro delle donne, e mi rende orgogliosa sapere che sotto il mio governo, il primo guidato da una donna, si sia raggiunto il record di occupazione femminile, anche se non sono ancora soddisfatta.
Certamente i dati sull’andamento dell’occupazione in Italia dicono che con scelte giuste si può anche qui “costruire con mattoni nuovi”, dando finalmente piena attuazione al primo articolo della nostra Costituzione.
Come sapete, tra pochi giorni, il 7 settembre, la Chiesa proclamerà santo un ragazzo di 24 anni. Quel ragazzo proveniva da una delle famiglie più ricche e importanti della sua città, e chiaramente avrebbe potuto godere della sua condizione privilegiata. Ma non lo ha fatto. Ha scelto invece di mettersi al servizio del prossimo e di chi aveva più bisogno. Quel ragazzo si chiamava Pier Giorgio Frassati, e nella Torino operaia e industriale dei primi decenni del Novecento dedicava le sue energie agli ultimi e ai più poveri. Dava loro anche del denaro, ma su tutto, si dava da fare per procurare loro un lavoro. E quando gli si pose davanti il caso di un padre di famiglia rimasto disoccupato, che non poteva più svolgere mansioni pesanti, allora scelse di donargli in maniera anonima 500 lire per consentirgli di avviare una piccola attività, una gelateria. E quando gli fu chiesto se sperasse di rivedere indietro i suoi soldi, lui rispose: “È bello dare del denaro e del pane; e ancora più bello è dare del lavoro”. Perché è nel lavoro che l’uomo trova la sua piena dignità; è nella realizzazione del lavoro che l’uomo comprende il suo valore. “Un uomo disoccupato”, diceva don Giussani, “soffre un attentato grave alla coscienza di sé stesso. Un uomo conosce sé stesso solo in azione, durante l’azione, mentre è in azione.”.
Per troppo tempo, prima di noi, chi ha governato l’Italia, ha smarrito questi insegnamenti, ha confuso il diritto al lavoro con il diritto a un reddito, rifugiandosi nell’assistenzialismo pur di non esercitare quel faticoso dovere che è in capo allo Stato e cioè il compito di creare le condizioni affinché il diritto al lavoro sia concretamente garantito. Al contrario, noi abbiamo sempre pensato che mentre i sussidi come il reddito di cittadinanza, deresponsabilizzano la società e atrofizzano le persone, la sussidiarietà – cioè la società dovunque possibile, lo Stato quando necessario – mobilitino le persone. Abbiamo sempre pensato che la vera ricchezza di una Nazione e di un popolo risieda nel lavoro. E questa è la visione che abbiamo seguito e declinato in tutte le nostre scelte. Però anche qui, forse in fondo non abbiamo fatto altro che credere nell’Italia, credere nelle sue imprese, nei suoi lavoratori, mettere quelle imprese e quei lavoratori nelle condizioni migliori per liberare il loro potenziale. I dati positivi che stiamo registrando sul fronte dell’occupazione ci incoraggiano a proseguire in questa direzione per consolidare quella traiettoria di crescita che ha permesso in poco più di mille giorni di creare oltre un milione di nuovi posti di lavoro, la gran parte dei quali a tempo indeterminato.
Però ci poniamo un obiettivo altrettanto ambizioso, che è quello di ricostruire su basi nuove la dinamica tra lavoratori e datori di lavoro. Dinamica che, in un tessuto produttivo come il nostro, fatto in gran parte da piccole e medie imprese, non può che essere fondata sulla condivisione e non sullo scontro. Perché io non ho mai conosciuto un solo imprenditore che non considerasse i suoi dipendenti la principale risorsa che aveva a disposizione. E il primo fondamentale “mattone nuovo” che abbiamo cementato insieme alle parti sociali e ai corpi intermedi è stata la legge di iniziativa popolare, storica battaglia della destra, poi promossa dalla Cisl, approvata dal Parlamento, sostenuta dal Governo, sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione d’impresa. Un traguardo che l’Italia aspettava da 80 anni e che è un punto di partenza per declinare una visione autenticamente sussidiaria del lavoro e della produzione.
Abbiamo rimesso al centro il lavoro, ma ci siamo anche occupati di restituire all’Italia quella credibilità di cui aveva bisogno per affrontare un quadro economico, finanziario e internazionale, come si ricordava, tra i più complessi di sempre. È una credibilità riconosciuta dai mercati, dagli investitori, dai risparmiatori, che abbiamo saputo costruire dimostrando sì certo, attenzione ai conti pubblici, però senza rinunciare a destinare risorse record alla sanità, al sostegno delle imprese, al potere d’acquisto dei lavoratori con redditi più bassi, delle famiglie più fragili. Lo abbiamo fatto con il taglio del cuneo fiscale reso strutturale, la detassazione dei premi di produttività e dei fringe benefit, l ‘IRPEF premiale per le imprese che investono e assumono, la decontribuzione, la super deduzione del costo del lavoro, prevista sempre in favore delle imprese che creano occupazione, abbiamo avviato la riforma dell’IRPEF con la riduzione da 4 a 3 aliquote con un intervento che ha un effetto diretto, tangibile, sulle tasche dei lavoratori e dei pensionati, ora è tempo di fare di più.
Ora vogliamo concentrare la nostra attenzione sul ceto medio, così da rendere il sistema più equo, più incentivante per chi pruduce reddito e contribuisce allo sviluppo della Nazione. E, allo stesso modo, intendiamo continuare a sostenere le imprese, dove l’obiettivo principale e più ambizioso che mi pongo rimane quello dell’abbassamento strutturale del costo dell’energia che pesa come un macigno sulla competitività italiana.
Eppure, la centralità del lavoro e della persona rimarrebbe un richiamo teorico, se non implicasse anche un impegno serio per l’educazione e la formazione, che è non il mattone nuovo, ma l’architrave stesso su cui è possibile costruire un’Italia protagonista della nuova epoca.
Stiamo lavorando per moltiplicare le opportunità, valorizzare il merito, che è l’unico vero ascensore sociale che abbiamo a disposizione, se accompagnato da uguaglianza nel punto di partenza. Ed è un percorso che abbiamo avviato non solo assicurando maggiori strumenti, risorse, organici al mondo della scuola, dell’università, della ricerca, non solo con la riforma dell’istruzione tecnica e professionale, perché per noi la sfida non è l’alternanza scuola-lavoro, ma semmai una grande alleanza tra scuola e lavoro, ma anche con il coraggio di introdurre piccole grandi rivoluzioni come quella che riguarda le modalità di accesso alla facoltà di medicina.
E se vogliamo avere il coraggio di portare altri mattoni nuovi nel mondo dell’educazione, io penso che non dobbiamo avere timore nel completare il percorso avviato in questi anni e trovare gli strumenti che assicurino alle famiglie, in primis alle famiglie con minori capacità economiche, di esercitare pienamente la libertà educativa sancita dalla Costituzione. L’Italia rimane l’ultima Nazione in Europa senza un’effettiva parità scolastica, e io credo che sia giusto ragionare sulla questione con progressività, con buonsenso, ma soprattutto sgombrando il campo da quei pregiudizi ideologici che per troppo tempo hanno impedito di affrontare seriamente il tema.
Eppure, in tutte queste politiche apparentemente settoriali, insieme alle tante altre che non citerò per ragioni di tempo, devono rientrare in un più ampio progetto di innovazione dell’impalcatura dello Stato, che è quello che gli italiani ci hanno chiesto di attuare dopo decenni di immobilismo e che io penso si debba continuare a perseguire con coraggio, anche di fronte a resistenze che possono sembrare insormontabili ma in realtà non lo sono.
Così andremo avanti con le tre grandi riforme, prima fra tutte quella del Premierato perché riteniamo l’elezione diretta del Capo del Governo la garanzia più solida per la stabilità e la governabilità. La stabilità, lo stiamo vedendo in questi mesi, è uno straordinario fattore di competitività della Nazione. Non solo, l’elezione diretta è anche il modo migliore per affermare la democrazia, per assicurare la piena corrispondenza tra il mandato popolare e il voto dei cittadini da un lato, e la composizione del Governo dall’altro. Vogliamo archiviare una volta per tutte la stagione in cui i cittadini votavano in un modo e poi vedevano formarsi governi di segno diametralmente opposto all’esito elettorale.
Chiaramente, a un potere esecutivo fortemente legittimato sul piano democratico, si deve accompagnare anche un processo di crescente responsabilizzazione dei territori e di chi amministra quei territori. È per questo che andremo avanti anche con la riforma dell’autonomia differenziata, con la riforma di Roma Capitale, avendo sempre cura che queste siano un fattore di stimolo, non certo di svantaggio competitivo per alcuni territori, e andremo avanti sulla riforma della giustizia.
Andremo avanti sulla riforma della giustizia nonostante le invasioni di campo di una minoranza di giudici politicizzati che provano a sostituirsi al Parlamento e alla volontà popolare. Andremo avanti, non per sottomettere il potere giudiziario al potere politico – come dice qualcuno male informato o più spesso in mala fede – ma, al contrario, per rendere la giustizia più efficiente per i cittadini e meno condizionata dalla mala pianta delle correnti politiche e dei pregiudizi ideologici. Per liberarla da politica.
Presidente Scholz, cari amici, costruire con “mattoni nuovi” significa trovare energie e idee nuove. E sono consapevole che queste non vengono necessariamente dai luoghi della politica, ma da esempi nella società che cercano più bene per tutti, e non un bene parziale per pochi. Il Meeting è un luogo che dà voce a tante persone, a tanti giovani, così anticonformisti da preferire l’impegno ai video sui tik tok, a tante opere autenticamente sociali, a tante imprese impegnate a far crescere l’Italia, con generosità e inventiva.
È un luogo che esprime una categoria di cui, particolarmente in quest’anno di Giubileo, la speranza, e la voglia di costruire quella speranza, è il tratto distintivo. Io, il Governo, l’Italia, abbiamo un disperato bisogno di quella speranza e di quella voglia costruire quella speranza. Quindi non sono qui a cercare consenso, sono qui a chiedervi una mano, perché senza luoghi di società viva la politica non ce la può fare.
Voi, che siete rimasti fedeli al carisma del vostro fondatore, non avete mai disprezzato la politica. Anzi. Non vi siete rinchiusi nelle sacrestie nelle quali avrebbero voluto confinarvi, ma vi siete sempre “sporcati le mani”. Declinando nella realtà quella “scelta religiosa” alla quale mezzo secolo fa altri volevano ridurre il mondo cattolico italiano, e che San Giovanni Paolo II ha ribaltato, quando ha descritto la coerenza, nella distinzione degli ambiti, tra fede, cultura e impegno politico.
Don Giussani, in un suo celebre discorso tenuto ad Assago nel 1987, invitava i politici a guardare sempre ai movimenti che dal basso, nella società, esprimono il senso religioso, cioè quella energia sacra del cuore che si evidenzia come desiderio di libertà e di giustizia, come rispetto per la dignità di chiunque, come opere che aiutano le persone a lavorare, unirsi e fare rete. C’è bisogno di questo per reagire, in un tempo stanco e disincantato, ma nel quale la speranza ancora resiste. Quella speranza che non cede, che si radica nella determinazione, che ci spinge a credere, e a combattere, anche quando tutto sembra avversarci.
Quella speranza che Thomas Stearns Eliot veste di poesia, facendo innalzare al cielo, dagli operai, un canto d’amore e di gioia, in un deserto che avrebbe fatto fuggire anche i più temerari. “Costruiremo il principio e la fine della strada. Ne costruiamo il senso: una Chiesa per tutti, e un mestiere per ciascuno. Ognuno al suo lavoro”.
Dunque, ciascuno prenda il suo cemento e i suoi mattoni. Perché è ora di costruire insieme.
Grazie.