C’è una costante nella politica italiana che, più di ogni altra, riesce a sintetizzare le crisi di coerenza della sinistra: l’indignazione retroattiva. È quel riflesso automatico che scatta ogni volta che una sentenza, una crisi o un problema strutturale viene attribuito al governo in carica, anche quando l’origine normativa risale a decenni di governi progressisti. È accaduto ancora una volta con la sentenza n. 96/2025 della Corte Costituzionale, che ha riacceso il dibattito sui Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), offrendo alla sinistra un nuovo pretesto per gridare allo scandalo. Peccato che il problema denunciato dalla Consulta sia figlio proprio delle loro leggi.
La Consulta interviene: non boccia, ma avvisa
La Corte ha esaminato il trattenimento amministrativo degli stranieri irregolari nei CPR, a seguito di un ricorso sollevato da un giudice di pace di Roma. Il nodo è giuridicamente solido: l’articolo 14, comma 2, del Testo Unico sull’immigrazione (d.lgs. 286/1998) stabilisce alcuni principi generali sul trattenimento, ma rimanda le modalità concrete a un decreto di rango secondario, il d.P.R. 394/1999.
Secondo i giudici costituzionali, questo assetto viola il principio di legalità in materia di libertà personale, garantito dall’art. 13 della Costituzione, che impone riserva assoluta di legge per ogni restrizione alla libertà. Tradotto: non basta una fonte secondaria, serve una legge vera e propria a definire in dettaglio i “modi” del trattenimento.
Eppure, la Corte non ha dichiarato illegittimo il trattenimento nei CPR, né ha imposto alcuno stop. Ha semplicemente segnalato un vuoto normativo da colmare — compito che spetta, come sempre in democrazia, al Parlamento.
Chi ha creato i CPR?
Non è un dettaglio secondario: i CPR, nella loro prima incarnazione, nacquero nel 1998 sotto il governo Prodi. A firmare la legge furono due ministri di spicco della sinistra italiana: Giorgio Napolitano all’Interno e Livia Turco alla Solidarietà sociale. Allora si chiamavano Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), ma la logica era identica: trattenere i migranti irregolari in attesa di rimpatrio.
Quasi vent’anni dopo, nel 2017, un altro governo di centrosinistra — quello guidato da Paolo Gentiloni — cambiò il nome in CPR, confermandone l’esistenza. A sostenere la misura furono il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il ministro dell’Interno Marco Minniti, entrambi del Partito Democratico. Nessuna frizione, nessuna indignazione. Il trattenimento amministrativo era considerato uno strumento necessario di gestione dell’immigrazione.
L’indignazione a orologeria
Oggi, la stessa parte politica che ha creato e rinominato i CPR si dice “scioccata” dalla decisione della Consulta. L’Alleanza Verdi e Sinistra li definisce “buchi neri del diritto”, +Europa parla di “luoghi di coercizione fisica”, mentre esponenti del PD chiedono la chiusura dei centri, accusando l’esecutivo attuale di violazioni sistematiche dei diritti umani.
Ma il vero punto è che il vuoto normativo evidenziato dalla Corte — l’assenza di una disciplina primaria sui modi del trattenimento — esiste da almeno 25 anni. È figlio della legge Turco-Napolitano del 1998, è stato confermato dal D.P.R. 394/1999 e mai sanato da nessuno dei governi successivi, incluso quello Renzi-Gentiloni. Per oltre un decennio la sinistra ha avuto tempo e potere per intervenire. Non l’ha fatto.
Il ruolo dell’Europa e la linea Meloni
Oggi i CPR non sono solo una scelta politica: sono anche una richiesta europea. I regolamenti dell’Unione prevedono che i migranti irregolari in attesa di espulsione possano essere trattenuti per evitare la fuga. In molti casi si tratta di soggetti ad alta pericolosità sociale, già condannati per reati gravi. Senza CPR, semplicemente, non potrebbero essere rimpatriati in sicurezza.
Il governo Meloni ha rafforzato queste strutture, senza mai nascondere l’obiettivo: aumentare i rimpatri, diminuire gli sbarchi, garantire la sicurezza. I dati parlano chiaro: nel primo semestre 2025, gli arrivi si sono dimezzati rispetto allo stesso periodo del 2023. Non è poco.
La Corte ha fatto il suo dovere: ha segnalato una carenza. Ora tocca al Parlamento intervenire, mettendo mano a una normativa dettagliata che tuteli la dignità dei trattenuti senza compromettere l’efficacia dei rimpatri. È un compito tecnico e politico allo stesso tempo. E sarà interessante vedere chi, tra gli indignati di oggi, avrà il coraggio di mettere mano a quella legge di cui sono, da sempre, i padri fondatori.