Dallo sciopero pro-Gaza alla minaccia: «Farete la fine di Mussolini». La piazza dell’odio

La minaccia vergata su uno striscione a Bisceglie — «Meloni, Tajani, Salvini farete la fine di Mussolini» — non è stata un maldestro slogan di protesta: è un atto che supera ogni limite della contesa civile e spalanca la porta alla paura. I pochi minuti in cui lo striscione è rimasto esposto hanno già prodotto l’effetto voluto: seminare intimidazione e normalizzare la violenza verbale contro le istituzioni. Questa volta non si tratta di una semplice manifestazione di dissenso, ma di una intimidazione che va denunciata con durezza e senza equivoci.

La sorella della premier e capo della segreteria politica di Fratelli d’Italia è intervenuta con parole nette su Instagram: «Scioperare è un diritto e la libertà di manifestare non si tocca in uno stato democratico. Però lo sciopero è astensione dal proprio lavoro. Non impedire agli altri di lavorare, perché altrimenti si chiama sopruso, prepotenza, violenza verso il prossimo». Parole chiare, che smascherano l’ambiguità di chi confonde protesta con teppismo e legittima forme di odio politico.

Arianna Meloni ha aggiunto un richiamo alla legalità e alla responsabilità civile: manifestare sì, ma «in accordo con le autorità di sicurezza pubblica». Tutto il resto — la devastazione del bene pubblico, l’aggressione alle forze dell’ordine, le minacce come quella vista a Bisceglie — non è protesta ma delinquenza mascherata da impegno umanitario. È un trucco: usare la tragedia di Gaza come copertura per colpire il governo che, paradossalmente, dichiara di voler portare aiuti concreti.

Non è un’iperbole dire che certe frange hanno abbandonato il confronto politico per abbracciare l’insulto e l’intimidazione. Quando la parola d’ordine diventa «farete la fine di…», la democrazia perde sangue: perde la possibilità di discutere, argumentare, persuadere. E chi alimenta queste pagine d’odio — anche a livello mediatico — si macchia di cinismo: sfruttare un dramma umano per puro tornaconto politico è vergognoso, e va chiamato col suo nome.

La responsabilità non è solo di chi alza lo striscione, ma anche di chi – attraverso retoriche infuocate e slogan sconsiderati – legittima questi gesti. La politica seria si misura anche con la capacità di isolare e condannare i violenti della piazza, non di cercare alibi per la loro presenza. Chi organizza manifestazioni dovrebbe garantire che non diventino palcoscenico per la rabbia fine a sé stessa.

Il dibattito pubblico deve tornare a misurarsi con le idee, non con le minacce. Le forze dell’ordine e le autorità locali hanno il dovere di individuare e perseguire chi usa la piazza per intimidire rappresentanti dello Stato e leader politici. E la società civile ha il dovere di non normalizzare l’odio: la democrazia si difende con la parola — ferma, decisa — e con la legge.

Chi, nel nome della solidarietà, trasforma la piazza in una tribuna per l’odio, tradisce la causa che dice di servire. Chi usa Gaza come pretesto per colpire il governo compie un doppio torto: calpesta la dignità delle vittime e tenta di destabilizzare il confronto politico. È ora di chiamare le cose con il loro nome: non dissenso, non protesta, ma intimidazione politica. Non possiamo accettarlo.

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