Negli ultimi mesi, la parola “dazio” è diventata praticamente il sinonimo della politica commerciale estera di Donald Trump ma, contrariamente alla narrazione che dipinge gli Stati Uniti come campioni del libero scambio, la loro storia è segnata da politiche protezionistiche in vari settori. Negli anni ’80, Ronald Reagan impose dazi per limitare l’importazione di auto giapponesi, che tuttavia conquistarono, poi, ampi segmenti di mercato per qualità e prezzo; con il secondo mandato di Trump, i dazi sono tornati al centro della strategia commerciale.
Ma l’obiettivo è davvero un ritorno all’autarchia produttiva?
Prima di rispondere, definiamo cosa sia un dazio: si tratta di un’imposta sul commercio estero, adottata per proteggere l’industria nazionale, aumentare le entrate fiscali o influenzare i consumi. I dazi hanno un valore strategico: contrastano il dumping (prodotti importati a prezzi inferiori rispetto a quelli locali), tutelano produzioni di qualità da imitazioni estere o generano introiti erariali.
Nel programma “America First”, i dazi mirano a incentivare la rilocalizzazione industriale negli USA, favorendo occupazione e investimenti come successe, ad esempio, con i già citati produttori automobilistici giapponesi, che aprirono stabilimenti in America per aggirare i dazi, o casi recenti come Barilla nell’agroalimentare e Beretta nelle armi.
Il problema di queste misure fiscali, al di là del loro ruolo di riequilibrio dei prezzi, è però chi ne sopporti realmente il costo: come l’IVA europea o le sales tax americane, i dazi ricadono sui consumatori finali, riducendone il potere d’acquisto. Per beni anelastici, come un iPhone o un vino pregiato, l’aumento dei prezzi ha un impatto limitato ma per beni elastici, invece, i consumatori si potrebbero orientare verso alternative più economiche, spesso di qualità inferiore, riducendo l’utilità complessiva. Dazi generalizzati, inoltre, aumentano i costi di materie prime e semilavorati importati, danneggiando le imprese locali che dipendono da catene di approvvigionamento globali. Negli Stati Uniti, settori come l’automotive, che importa componenti da Cina, Giappone ed Europa, e l’agroalimentare, che dipende da acciaio e alluminio per imballaggi, affronterebbero costi crescenti, con rincari stimati fino al 10% per i consumatori americani (riportato in The Budget Lab at Yale, 2025). Le eventuali e conseguenti ritorsioni commerciali aggraverebbero, poi, il quadro: la Cina, ad esempio, ha ridotto del 90% le importazioni di olio statunitense, colpendo gli agricoltori americani, mentre l’UE ha annunciato contromisure su aerei, macchinari e prodotti chimici, per un valore di 95 miliardi di euro di export USA. In Italia, in particolare, i dazi minacciano 38 miliardi di euro di esportazioni che, seppur rappresentino “solo” il 6% dell’export totale (come indicato dal report 2024 dell’Agenzia ICE), coinvolgono settori vulnerabili come agroalimentare, automotive e meccanica, esponendo secondo Confindustria circa 6’000 imprese a rischi significativi.
Dal punto di vista fiscale, invece, i dazi generano inizialmente maggiori entrate ma queste diminuiscono nel tempo, poiché, come già indicato, i beni elastici vedono calare le vendite, mentre i beni anelastici, pur redditizi, rappresentano mercati a bassi volumi di scambi.
Già Ronald Reagan, anni fa, avvertiva che le guerre commerciali danneggiano tutte le parti coinvolte, configurando un gioco lose-lose con effetti negativi a lungo termine per entrambe le parti. I dazi, infatti, creano dipendenza dalla protezione statale, soffocano l’innovazione, aumentano i prezzi, riducono i consumi e possono portare a perdite di posti di lavoro.
Eppure, Reagan stesso, dicevo all’inizio, utilizzò i dazi ma come strumento negoziale.
Nel 1987, a proposito dei dazi sui prodotti giapponesi, dichiarò: “La scorsa settimana ho imposto nuovi dazi su alcuni prodotti giapponesi in risposta all’incapacità del Giappone di far rispettare l’accordo commerciale con noi riguardante dispositivi elettronici chiamati semiconduttori. Ora, imporre dazi, barriere commerciali o restrizioni di qualsiasi tipo è una misura che sono restio a prendere. […] sul lungo periodo, queste barriere danneggiano ogni lavoratore e consumatore americano. Ma […] Avevamo prove chiare che alcune aziende giapponesi stavano adottando pratiche commerciali scorrette, violando l’accordo tra Giappone e Stati Uniti. Ci aspettiamo che i nostri partner commerciali rispettino gli accordi presi. Come ho spesso detto: il nostro impegno per il libero scambio è anche un impegno per uno scambio equo. Ma, vedete, nel prendere questi provvedimenti non volevamo certo avviare una guerra commerciale: stavamo solo cercando di affrontare un problema specifico. […] vogliamo continuare a collaborare per risolvere i problemi commerciali e desideriamo davvero eliminare queste restrizioni il prima possibile, non appena le prove lo consentiranno. Vogliamo farlo perché riteniamo che sia il Giappone sia gli Stati Uniti abbiano l’obbligo di promuovere la prosperità e lo sviluppo economico che solo il libero scambio può garantire.”
I dazi di Trump sono diversi?
Probabilmente no. Sono, infatti, asimmetrici, variano per Stato e, dopo l’annuncio del 2 aprile scorso (il cosiddetto “Liberation Day”) sono stati subito seguiti dall’apertura di nuovi negoziati per aggiornare gli accordi commerciali vigenti.
A maggio 2025, ad esempio, Stati Uniti e Cina hanno concordato una riduzione temporanea dei dazi (da 145% a 30% per gli USA e da 125% a 10% per la Cina) per 90 giorni, con l’obiettivo di proseguire le trattative, a luglio 2025, gli USA hanno siglato un accordo con il Giappone, che prevede dazi al 15% (invece del 25% minacciato) su auto e componenti e un investimento giapponese di 550 miliardi di dollari negli Stati Uniti mentre in Europa, invece, la debolezza politica delle istituzioni UE, segnata da divergenze tra Stati membri (la Germania, che protegge il settore automobilistico, o la Francia, cauta per timore di ritorsioni su vino e lusso, su tutte), rallenta le trattative, alimentando una narrazione critica.
È improbabile che l’amministrazione Trump punti a un protezionismo mercantilista. Il team di governo, che vanta, contrariamente a una certa narrazione, solidi curricula accademici e professionali, conosce i rischi recessivi di una chiusura commerciale, che avrebbe anche conseguenze elettorali negative, contraddicendo le promesse di crescita. La differenza principale rispetto al passato, a voler ben vedere, risiede nello stile comunicativo e nelle modalità di confronto con i partner internazionali ma solo i risultati a fine mandato offriranno un giudizio definitivo sull’efficacia di questa strategia.