C’è un filo rosso – saldo, nitido, inequivocabile – che unisce il primo grande discorso pubblico di Leone XIV da Pontefice, quello rivolto al Corpo Diplomatico lo scorso gennaio, all’omelia pronunciata domenica 1° giugno in Piazza San Pietro in occasione del Giubileo delle Famiglie, dei Nonni e degli Anziani. In mezzo, ci siamo stati noi, a scriverne e a leggerne i segni. Oggi possiamo dirlo con chiarezza: quelle parole, apparentemente controcorrente, tracciavano la rotta di un pontificato deciso a riconsegnare alla realtà la sua verità più profonda.
Allora – lo avevamo sottolineato su queste colonne – Leone XIV aveva definito la famiglia «fondata sull’unione stabile tra uomo e donna» come un dato antropologico non negoziabile, fondamento del bene comune. Parole nette, pronunciate nel cuore della diplomazia internazionale. Ora, in un’omelia densa di Vangelo e di visione, il Papa torna su quel punto: «Il matrimonio non è un ideale, ma il canone del vero amore tra l’uomo e la donna: amore totale, fedele, fecondo».
Non si tratta di un’irruzione nell’attualità, ma del suo esatto contrario: un recupero dell’essenziale. In un’epoca in cui l’ideologia tenta di manipolare la grammatica umana, Leone XIV sceglie di custodirla, come chi protegge una lingua madre dalla distruzione. Il suo non è un messaggio “contro” qualcuno, ma a favore di qualcosa: la dignità dell’amore umano, la verità della relazione, la potenza generativa di un’unione naturale e spirituale. La famiglia, dice il Papa, non è un accessorio sociale, ma il luogo in cui la vita si trasmette, si cura, si educa, si rende libera.
Per questo, il Pontefice può affermare con la forza mite del Vangelo che «tutti noi viviamo grazie a una relazione», che «abbiamo ricevuto la vita prima di volerla» e che «è qualcun altro che ci ha salvato, prendendosi cura di noi». In queste parole vibra un’antropologia dell’interdipendenza, della responsabilità, della gratuità. Tutto ciò che le culture dello scarto e dell’individualismo cercano oggi di negare.
Ma il passaggio più denso – anche teologicamente – è forse quello in cui il Papa richiama la comunione trinitaria come modello di unità umana: «Il Signore non vuole che noi, per unirci, ci sommiamo in una massa indistinta […] ma desidera che siamo uno». Non omologati, ma uniti. Non funzionali, ma amati. Questa è la vera rivoluzione cristiana: essere “uno” senza perdere sé stessi, donarsi senza dissolversi, generare senza appropriarsi.
È su queste fondamenta che Leone XIV rilancia l’alleanza coniugale come antidoto al nichilismo relazionale. E lo fa anche con esempi concreti, che parlano al cuore della nostra epoca: cita i Beati coniugi Martin, i Beltrame Quattrocchi e la famiglia Ulma, martiri dell’amore e della fedeltà. Non figure ideali, ma storie incarnate di uomini e donne che hanno vissuto la vocazione matrimoniale come via alla santità.
In un tempo in cui anche nella Chiesa si discute di riconoscimenti simbolici ad altre forme di unione, Leone XIV – con dolce fermezza – indica la strada maestra, non chiudendo nessuna porta, ma fondando ogni dialogo sulla verità dell’umano. Perché senza verità, nessuna misericordia è possibile. Senza identità, nessuna accoglienza è duratura.
Così, il Papa non si limita a benedire le famiglie, ma le chiama alla responsabilità: genitori coerenti, figli grati, nonni vigili. È una pedagogia della reciprocità, che non concede sconti ma promette pienezza. La fede – ci ricorda – si trasmette “insieme alla vita”, tra la tavola e il cuore, nel quotidiano che diventa liturgia.
Chi osserva con attenzione i primi mesi del pontificato di Leone XIV, non può che cogliere una coerenza di fondo: il rifiuto dell’astrazione, il ritorno al reale, la centralità dell’umano. In questo, il Papa non è né progressista né conservatore: è profondamente cattolico. E la sua voce, oggi più che mai, suona come un richiamo – non nostalgico ma profetico – a ciò che rende davvero libera e degna la civiltà: la famiglia, “una carne sola”, icona della Trinità.