Dopo il Conte bis c’è solo il voto

Dopo il Conte bis – a maggior ragione a seguito della gestione disastrosa di palazzo Chigi dell’emergenza coronavirus – abbiamo abbondantemente dato: non può che esserci il voto. Solo il voto.

Nessun “ter”, questo sembra ovvio persino al Quirinale, ma neppure quel “governissimo” che ieri è rimbalzato dalla conferenza stampa di Matteo Salvini. No, nemmeno nella formula “a tempo”, sotto forma di esecutivo di emergenza per sostituire i giallorossi nella gestione di questa delicata fase, al termine della quale – come ha fatto intendere il leader della Lega – fra settembre ed ottobre si tornerebbe poi a votare.

Certo, lo ha ribadito anche Giorgia Meloni, il governo Conte è «un’esperienza fallita» (e Fratelli d’Italia da parte sua è pronto a presentare una mozione di sfiducia): da questo esecutivo però, a differenza di ciò che ha paventato l’alleato leghista e fantasticano alcuni retroscenisti, non può procedere nient’altro se non un terzo accrocco ancora più disorganico e disorganizzato delle due esperienze gialloverdi e giallorosse. Un’eventualità che rischia, come nella peggiore tradizione politicista, di iniziare con una data di scadenza impressa ma di prolungarsi – magari con la scusa delle prossima legge di Bilancio, le clausole di salvaguardia e così via – senza una bussola che non sia l’istinto di autoconservazione di una legislatura già decotta.

Per questo, ancora prima che l’ipotesi di un improbabile governo di salute pubblica fosse bocciata da Pd e 5 Stelle, Meloni ha insistito sul principio irremovibile: dopo Conte ci sono «libere elezioni». E se questo “dopo” dovesse essere adesso? Nessuna “emergenza”, anche reale come quella del coronavirus, o presunto impedimento tecnico (il referendum sul taglio dei parlamentari) può rappresentare un ostacolo o un motivo per impedire ancora al popolo di potersi esprimere.

Si tratta per caso di un atteggiamento di chiusura radicale? Tutt’altro, dato che sull’emergenza contagio e le ricadute sul sistema Paese la destra politica ha fornito – come pubblicato ieri su La Voce del patriota – collaborazione concreta in Aula e contributi appropriati al governo, mantenendo oltretutto un profilo responsabile proprio nelle ore in cui Conte-Casalino vaneggiava sulla crisi epidemia in tutte le tv contribuendo a colpire in maniera autolesionista l’immagine (e l’economia) dell’Italia nel mondo.

Un “no”, secco, a ogni ipotesi di larghe intese, governissimi, unità nazionali e tutte le formule utilizzate per definire l’accordo fra avversari è motivato dalla duplice esperienza che ha fornito la grottesca performance di un premier “buono” per tutte le stagioni. Ossia, come ha attaccato Meloni, per due governi «nati da un inciucio che non hanno prodotto nulla se non l’immobilismo e i compromessi al ribasso».

L’ultima “impresa”, dopo il costosissimo flop del reddito di cittadinanza e l’abolizione (incostituzionale) della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, è il decreto intercettazioni: misura da “Stato dei pm”.

Tanto basta per dire: non serve la terza prova, a maggior ragione se gli interlocutori sono Conte, Di Maio, Zingaretti e il “dioscuro” dell’attuale disastroso governo, Renzi. In campo restano, guarda caso, le tre forze del centrodestra, le stesse alle quali – per una precisa scelta del Colle – non fu concessa l’occasione di cercare di formare un governo, nonostante l’affermazione del marzo 2018.

E adesso che i tentativi e le alchimie per bypassare il sentimento maggioritario degli italiani sono oggettivamente finiti (ed è davvero incomprensibile se dal centrodestra dovessero arrivare proprio adesso improbabili “sostegni” a ipotesi del genere) non resta che il voto per riconnettere una volta per tutte domanda e offerta. Scommettiamo che stavolta non ci saranno dubbi un’ora dopo lo scrutinio?

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