Non si muore di solo Covid. Ecco il dossier shock.

Pubblichiamo il documento di approfondimento prodotto dall'Ufficio Studi di Fratelli d'Italia.

Introduzione

L’emergenza sanitaria legata a Covid-19 ha assorbito quasi completamente le energie e le attenzioni di chi si occupa di salute pubblica. Ma nonostante questa profusione di sforzi l’Italia si trova al terzo posto in tutto il mondo per indice di letalità da Coronavirus, che si ottiene calcolando il rapporto tra morti per Covid e il numero di casi positivi diagnosticati. Da noi ce ne sono 4 ogni 100 contagi, dietro solo a Messico (10 ogni 100) e Iran (5 ogni 100)[1].

Ma se finalmente adesso (maggio 2021) pensiamo di cominciare a vedere la fine di questo incubo sanitario sarà bene tenere a mente che il prezzo che abbiamo pagato e che continueremo a pagare fino al giorno della agognata immunità di gregge non è niente in confronto a quello che ci aspetta, perchè ben presto faremo i conti con la peggiore delle ondate: quella dei malati di altre patologie completamente dimenticati.

C’è infatti una zona fino adesso rimasta nell’oscurità e che intendiamo tirar fuori in tutta la sua gravità con questo dossier, ed è quella delle vittime di una sanità presa in ostaggio (da un anno e mezzo) dal Coronavirus, ma soprattutto da una organizzazione sanitaria che per far fronte all’emergenza ha completamente dimenticato l’ordinario. In questo studio abbiamo pertanto provato a tirare le somme incrociando i dati delle principali Agenzie Sanitarie, dell’Istat e delle Confederazioni di medici oncologici e cardiologici.

Tutte le epidemie hanno lo stesso svolgimento e cioè un andamento che attraversa almeno tre stadi. C’è una prima fase che è quella della crisi dovuta alla diffusione del virus nella quale sono prioritarie le misure del confinamento e della tracciatura dei contatti. Ma se questa fase fallisce (come è successo nel nostro Paese) subentra la fase della grave crisi dell’intero Sistema Sanitario e della difficoltà della gestione clinico-assistenziale soprattutto da parte degli ospedali, ed è quella che stiamo vivendo anche noi.

Il mistero dei 30mila morti in più, in Italia, non attribuibili al Covid

“C’è un dato molto preoccupante: secondo l’Istat, l’Italia nel 2020 ha avuto circa 30mila morti in più rispetto a quelli attribuiti a Covid e a quelli attesi per le altre patologie”. A lanciare l’allarme è Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, che all’Adnkronos Salute traccia un quadro di quelli che sono i pazienti che più hanno risentito dell’ondata di Covid-19 che ha travolto gli ospedali[2]. “Questo dato ci preoccupa, perché può essere la conseguenza finale anche delle cosiddette malattie trascurate causa pandemia”.

Le preoccupazioni dei medici si concentrano in particolare – ma non solo – su due famiglie di patologie, tumori e malattie cardiovascolari, per i risvolti che rischiano di assumere i ritardi nella prevenzione, nella diagnosi, nella presa in carico e nei trattamenti registrati in questi mesi di lotta a Sars-CoV-2. Dati diffusi dall’associazione Salutequità[3] mostrano come per esempio gli screening oncologici siano letteralmente crollati. Ma c’è di più: “Tanti colleghi oncologi – segnala Anelli – mi dicono che al primo accesso dei pazienti vedono quadri di stadiazione dei tumori più avanzati, che non si vedevano da tanto tempo perché eravamo riusciti a fare diagnosi molto precoce. In prima diagnosi non succedeva quasi più di vedere malattie così avanzate”.

“C’è poi il capitolo delle patologie cardiovascolari, in maniera particolare degli infarti”, fa notare Anelli. Una delle prime ‘emergenze nell’emergenza’ emersa subito già in occasione della prima ondata Covid. C’è stato un aumento e “anche su questo i colleghi cardiologi ci dicono che i quadri che si vedono oggi in pronto soccorso sono di infarti in fase acuta. Le persone arrivano con un certo ritardo” e questo ha conseguenze gravi in una patologia tempo-dipendente. “Ogni minuto perso equivale a una parte importante di tessuto cardiaco che muore. E questo, laddove non ha conseguenze mortali – ammonisce il presidente Fnomceo – ha effetti a lungo termine abbastanza drammatici per il recupero della persona.

C’è poi una terza famiglia di malattie che subisce particolarmente l’impatto della pandemia. “E’ un effetto più atteso – spiega il numero uno degli Ordini medici – l’aumento delle patologie psichiatriche che si verifica in ogni crisi di questo genere. Si parla di depressioni minori e maggiori” e altre forme di disagio mentale. “In tutte crisi di vario genere a livello mondiale queste tendono ad aumentare”.

L’effetto di questo ‘tsunami’ si propagherà a lungo, avverte Anelli. “Ovviamente ci aspettiamo purtroppo per il futuro anche una riduzione dell’indice di sopravvivenza.

Dunque secondo l’Istat, lo scorso anno (nel 2020) c’è stato un aumento di 85.624 decessi. Ma «solo» 55.576 per il coronavirus, fa notare anche il Corriere[4]. La domanda che ci poniamo a questo punto è: non sono stati fatti tamponi a sufficienza o sono stati curati meno bene gli altri malati?

Spieghiamoci meglio: negli ultimi giorni del 2020 l’Istat, l’istituto statistico ha diffuso il numero dei morti in Italia fra marzo e novembre, facendo un confronto con le medie dei cinque anni precedenti. Nei nove mesi di pandemia, all’istituto di statistica risulta un aumento di 85.624 decessi rispetto all’andamento 2015-2019. Ma «solo» due terzi di questa cifra sono stati ufficialmente attribuiti al Covid-19.

Dunque durante il drammatico 2020 ci sono stati almeno trentamila decessi in più rispetto alla normalità del passato. I numeri da soli non lo spiegano, ma l’interrogativo che inevitabilmente ci poniamo è: a cosa sono dovuti questi 30mila decessi in più? Erano prevedibili e prevenibili con adeguate misure organizzative? In questo dossier proveremo a dare una risposta almeno parziale.

Se scomponiamo i numeri su base territoriale (la tabella è stata elaborata dal Corriere in base ai dati dei decessi dell’Istat), si nota che se in alcune province i morti non sono aumentati, in altre invece sono quasi raddoppiati: +86% a Bergamo, +76% a Cremona, +62% a Lodi, + 57% a Brescia, +41% a Milano.

I dati sui decessi da Covid su base provinciale – che nessuno sembra voler condividere, ma che esistono – spiegano quanti morti in ogni area si possono spiegare con il contagio.

Potenzialmente, si tratta di un indicatore della performance dei sistemi sanitari: più alta è la quota di decessi per coronavirus sul totale dei morti in eccesso, più è chiaro che una regione è riuscita a mantenere le cure anche per le altre malattie e a diagnosticare gran parte dei contagiati dal virus. Occorre però anche considerare che, ad esempio la Lombardia è stata la regione con più contagi e ricoveri da Covid, rispetto ad altre regioni dove i contagi sono stati assai più contenuti. La tabella quindi non può certo essere un riferimento per una valutazione delle performance degli ospedali.

Il dato certo invece è che i sistemi sanitari, travolti dalla pandemia, hanno smesso di curare tumori o patologie cardiache con l’attenzione di prima. Proviamo adesso a riportare altri numeri: quelli delle principali Agenzie Sanitarie e delle Confederazioni di medici oncologici e cardiologici.

Nel 2020 un milione di ricoveri in meno rispetto al 2019

Gli ultimi dati riportati da Agenas (l’Agenzia sanitaria nazionale delle Regioni) aiutano a comprendere quello che vogliamo dimostrare, ovvero l’enorme spessore dei danni collaterali della pandemia. Nei primi sei mesi del 2020 i ricoveri ospedalieri sono stati 3,1 milioni contro i 4,3 dello stesso periodo dell’anno precedente.

Il che significa che, nel 2020, durante la prima ondata della pandemia, negli ospedali ci sono stati 1,1 milioni di ricoveri in meno, il 28% del totale, come rileva anche un report dell’alta scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica che ha calcolato quanti ricoveri ospedalieri non Covid sono stati rinviati e comunque non effettuati rispetto a quelli programmati[5].

Sempre Agenas ci informa che, in 9 mesi, da gennaio a settembre 2020, si sono perse ben 52 milioni di visite specialistiche e prestazioni diagnostiche: cioè il 30% in meno[6]. Che tradotto significa che milioni di italiani non sono stati dal cardiologo, dal ginecologo, dal neurologo e non hanno fatto risonanze, ecografie e tac.

Ma, stando ai dati, la sanità ha fatto meno prestazioni rispetto al pre-Covid, anche nei mesi del 2020 dove l’urgenza non c’era più e le terapie intensive si erano svuotate.  Dati che hanno una stretta connotazione territoriale, come rivela il questionario inviato da Federsanità ai direttori delle principali Aziende sanitarie[7]. Le risposte delle Aziende, comunque in generale, riferiscono di una riduzione delle prestazioni con punte che vanno dal 10% al 28%, dove quelle ambulatoriali raggiungono le punte più alte per prestazioni ritardate e recuperate poi o in via di recupero.

La classifica delle principali cause di decesso in Italia, prima del Covid

A questo punto, prima di continuare, reperiamo da Istat la classifica delle principali cause di decesso in Italia pre Covid[8], e poi vediamo l’attenzione che la sanità italiana ha rivolto ai pazienti affetti dalle malattie che sappiamo essere più letali.

Ecco un elenco per tipologia[9]

  1. malattie del sistema circolatorio:                                                     230.283
  2. tumori:                                                                                             186.495
  3. malattie del sistema respiratorio:                                                      52.905
  4. malattie del sistema nervoso:                                                            30.404
  5. malattie endocrine e metaboliche:                                                     29.199
  6.   disturbi psichici e comportamentali:                                                  24.252
  7.   cause esterne di traumatismo e avvelenamento:                               24.027
  8.   malattie dell’apparato digerente:                                                       22.782
  9. malattie infettive e parassitare:                                                           13.785
  10. malattie dell’apparato genitourinario: 11.921

Gli ultimi dati aggiornati disponibili sono relativi al 2017. Guardando nel dettaglio le tabelle ISTAT sulla mortalità abbiamo ripreso le prime dieci  cause principali di decesso in Italia (su un totale di morti pari a 650.614) e scopriamo subito che il boom di decessi è legato a malattie del sistema circolatorio. Tra ischemie, infarti, malattie del cuore e cerebrovascolari muoiono più di 230mila persone all’anno. In seconda posizione troviamo i tumori, che causano la morte di 180mila persone.

 

Durante il lockdown triplicati i morti per infarto

Dunque riassumendo le malattie cardiovascolari rappresentano ancora la principale causa di morte nel nostro Paese, ci saremo pertanto immaginati, anche in periodo di pandemia, una corsia preferenziale per i cardiopatici ma non è esattamente quello che è successo, anzi!

La pandemia ha fatto ridurre le prestazioni anche per queste patologie urgenti, si parla del 23,5 % dei ricoveri per infarti gravi in meno. E le conseguenze sono state immediate: secondo uno studio condotto dalla Società Italiana di Cardiologia (SIC)[10], condotto in 54 ospedali italiani e in corso di pubblicazione sulla prestigiosa rivista European Heart Journal, in Italia la mortalità per infarto, nel 2020 è triplicata.

Rispetto al 2019, nel 2020 la mortalità è passata dal 4.1 % al 13.7%[11], tanto che sono mesi che leggiamo nella stampa l’appello delle Associazioni nazionali di medici di cardiologia: “abbassare la guardia sulle malattie cardiovascolari, responsabili di più di 230 mila decessi ogni anno, e non ricostruire la rete dell’emergenza cardiologica, potrebbe causare più morti che per Covid-19″.

Secondo Indolfi, Ordinario di Cardiologia Università Magna Graecia di Catanzaro “l’attenzione della sanità su Covid-19 e la paura del contagio rischiano di vanificare i risultati ottenuti in Italia con le terapie più innovative per l’infarto e gli sforzi per la prevenzione degli ultimi 20 anni”.

Se non verrà ripristinata la rete cardiologica avremo più morti per infarto che per Covid: Il cattedratico sottolinea che “l’organizzazione degli Ospedali e del 118 in questa fase è stata dedicata quasi esclusivamente al Covid-19 e molti reparti cardiologici sono stati utilizzati per i malati infettivi. Inoltre, per timore del contagio i pazienti ritardano l’accesso al pronto soccorso e arrivano in ospedale in condizioni sempre più gravi, spesso con complicazioni aritmiche o funzionali, che rendono molto meno efficaci le terapie che hanno dimostrato di essere salvavita come l’angioplastica primaria”.

Carmen Spaccarotella, coautrice dello studio, sostiene che l’aumento è “dovuto nella maggior parte dei casi a un infarto non trattato o trattato tardivamente. Infatti, il tempo tra l’inizio dei sintomi e la riapertura della coronaria durante il periodo Covid è aumentato del 39%”.”Questo ritardo è spesso fatale perché nel trattamento dell’infarto il tempo è un fattore cruciale”, sottolinea Spaccarotella. L’età media di questi pazienti infartuati è stata di 65 anni. All’aumento della mortalità è associata una “sorprendente” riduzione dei ricoveri per infarto superiore al 60%.

Inolfi avverte che “se questa tendenza dovesse persistere e la rete cardiologica non sarà ripristinata, ora che è passata questa prima fase di emergenza, avremo più morti per infarto che di Covid-19”.

Secondo Giuseppe Tarantini, presidente di Gise, la società italiana di cardiologia interventistica, il problema adesso sarà intercettare i pazienti non acuti ma comunque gravi, che magari necessitavano di interventi e si sono allontanati dal sistema sanitario. “Dobbiamo recuperarli. Gli ospedali non sanno che fine hanno fatto coloro che sono classificati nelle classi B, C e D, cioè meno urgenti della A. Si tratta di persone che si possono aggravare e per questo dovevano fare gli interventi, ad esempio di angioplastica”. Non è mai stato attuato un programma di ripartenza cardiologica in questo Paese. Ci sono nostri documenti pronti da mesi ma fermi ai tavoli tecnici”.

Prevenzione e cure oncologiche in epoca Covid

Un inchiesta di Repubblica[12] mette in evidenza che i bisturi sono rimasti nei contenitori sterili ovunque e per tutte le tipologie di tumore.

E così c’è stato un taglio del 22% degli interventi alla mammella, del 24 per quelli della prostata, del 32 per il colon, del 13 per il retto e il polmone, del 21 per il melanoma e del 31 per la tiroide.

Per non parlare dei rinvii degli interventi, in quel caso si parla del 99% di interventi rimandati:

Nel 2020 in Italia hanno subito un rinvio il 99% degli interventi per tumore alla mammella, il 99,5% di quelli alla prostata, il 74,4% dell’operazioni al colon retto[13]. E’ il grido di allarme della Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia.

Gli screening per il tumore del seno, della cervice uterina e del colon retto hanno registrato una riduzione di 2,5 milioni di esami nel 2020 rispetto al 2019. In media per i programmi di prevenzione il ritardo è compreso tra i 4 e i 5 mesi; mentre, anche quando gli interventi sono avvenuti, l’intervallo di tempo tra la discussione multidisciplinare dei medici e l’operazione è più che raddoppiato nel 2020 rispetto al 2019. dati sempre forniti dal documento elaborato dalla favo, e ribattuto da tutte le agenzie[14].

 

Piano nazionale oncologico fermo al 2011

Ma la lotta contro il cancro era stata già trascurata anche prima del Covid: il piano nazionale oncologico in Italia è fermo al 2011, lo stesso piano poi è stato prorogato fino al 2016. Stiamo parlando di un piano di un centinaio di pagine di analisi, percorsi e azioni programmatiche con le linee guida su come organizzare prevenzione e cure. Un piano quindi che ai giorni di oggi non può che essere inadeguato (un pò come è successo per il piano pandemico non aggiornato). Nel frattempo l’Italia è cambiata, ci sono zone in cui sono aumentati i tumori ai polmoni a causa dell’inquinamento; i sistemi medici, le terapie, le analisi si sono evoluti, eppure si sono alternati Ministri della Salute e governi ma NESSUNO HA RITENUTO IMPORTANTE RIVEDERE LA STRATEGIA CONTRO IL TUMORE; CHE E’ LA SECONDA CAUSA DI MORTE IN ITALIA.

Da quel 2016 nessuna iniziativa fino al 2019 quando viene redatta una nuova bozza di 145 pagine, che però non ha completato il cammino per l’approvazione ed è rimasta un esercizio teorico, come leggiamo in  un articolo dell’Espresso (in allegato). Rinunciando al piano nazionale le istituzioni statali hanno abdicato alla tutela dei cittadini, rendendoli, come giustamente fa notare l’espresso, diseguali di fronte la malattia. Non ci sono stati ne stimoli, ne vincoli per spingere le regioni in ritardo ad uniformare la loro assistenza e così è stato limitato il diritto alle cure, soprattutto sul fronte delle reti regionali, condizione per accedere ai finanziamenti europei.

“Adeguare il piano anche in relazione a quello europeo significa poter ricevere i fondi che sono nostri, che ci spettano e dare a tutti malati le stesse opportunità: penso alla telemedicina da incrementare, perché molte cose ad oggi si possono fare da casa senza doversi recare in ospedale; ai programmi di screening che non vengono condotti in modo uniforme in tutte le regioni; al coordinamento tra centri specializzati e presidi sul territorio.

Il cancro c’è e purtroppo ci sarà anche nei prossimi anni. Non è un’emergenza. La mancanza o la non aderenza ai programmi di screening fa sì che le diagnosi siano tardive e purtroppo le prognosi peggiori. Lo stiamo vedendo in questo periodo. Il tumore non si è fermato con la pandemia e molti pazienti arrivano con malattie più avanzate. Nei prossimi anni, secondo molti studi, le morti per cancro potrebbero aumentare” afferma il professor  Paolo Veronesi.

Ne deduciamo pertanto che il Piano Oncologico Nazionale debba necessariamente seguire la via indicata dall’Europa, prevedendo azioni, tempistiche, finanziamenti e modifiche regolatorie e legislative per superare l’emergenza oncologica. Ciò anche per rispondere concretamente alle gravi insufficienze strutturali dell’assistenza ai malati di cancro già note prima del Covid e adesso rese più che mai evidenti dalla pandemia.

Un milione di pazienti psichiatrici in più

Secondo le ultime statistiche nazionali, al dato di 830mila pazienti in cura presso i Dipartimenti di salute mentale (Dsm) prima del virus, oggi si calcola di dover aggiungere almeno un +30%, traducibile in un milione di nuovi casi di disagio mentale. Numeri impressionanti, riportati sulle colonne del quotidiano “Il Sole 24 Ore”.

Claudio Mencacci, co-presidente della Società italiana di NeuroPsicoFarmacologia (Sinpf) e direttore del Dipartimento Neuroscienze e Salute mentale Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano spiega: “La pandemia – ha dichiarato – ha creato uno stress senza precedenti sui servizi di Psichiatria, con un aumento enorme delle richieste di prestazioni volte a fronteggiare le conseguenze psichiatriche del virus. Ma è più appropriato parlare di sindemia: un mix tra pericolo clinico e sociale fatto di malattia, di paura del contagio, della cosiddetta Covid fatigue, di lutti, di crisi socioeconomica. E dell’emersione di una profonda solitudine, soprattutto tra gli anziani[15]”.

Secondo Corrado De Rosa, psichiatra e autore di saggi scientifici: “dovremo attenderci, fra chi soffre già di un disturbo, un rischio di aggravamento di alcune patologie, anche perché la riduzione delle attività connesse al lockdown renderà più difficili i percorsi di cura dei pazienti. Dovremo attenderci anche l’emergere di nuove forme di disagio finora latenti. In alcuni, l’evoluzione in un disturbo, spesso non diagnosticato o curato in modo inadeguato (disturbi dello spettro dello stress, ansioso-depressivi e del sonno, abuso di sostanze)”.

Insomma, era tutto prevedibile, ma non calcolato e considerato.

Un primo segno di quanto stiamo perdendo il controllo è l’impennata dei casi di trattamento sanitario obbligatorio. A Torino, ad esempio, da una media di un TSO ogni due giorni, con il lockdown si è passati a picchi di nove TSO al giorno. Al di là delle sofferenze umane questi numeri, se confermati altrove, implicano anche un ulteriore carico sul nostro sistema sanitario già sottoposto a uno stress inverosimile.

Sistema sanitario su cui dovevamo investire e che invece abbiamo preferito sfalciare, come denuncia Costanza Jesurum: “Esiste in Italia una situazione emergenziale da prima della pandemia. I pesanti tagli alla sanità in hanno interessato i centri di salute mentale in maniera massiva: i dirigenti psichiatri e psicologi vanno in pensione ma non ci sono nuovi concorsi, contesti dove lavoravano sinergicamente professionisti diversi ora sono sulle spalle di pochi sopravvissuti che li tengono in piedi con tirocinanti e volontari. In certe regioni può capitare di fare domanda di una psicoterapia e dover aspettare un anno[16].”

Ma non basta.

L’emergenza sanitaria da Covid 19 ha portato ad un aumento delle malattie mentali tra i più giovani ma, chi ha bisogno di un ricovero ospedaliero, il più delle volte non può usufruire di una struttura ottimale. Un dato strettamente correlato all’emergenza sanitaria e che ha portato come conseguenza ad avere quasi la metà dei posti letto di Pediatria, occupati da minori che soffrono di questi disturbi.

A fare il punto della situazione è lo psichiatra Francesco Risso, primario del Dipartimento Interaziendale di Salute Mentale AslCn1 e Aso Santa Croce e Carle: “Sono sempre più numerosi gli ingressi in pronto soccorso e quindi di conseguenza ai reparti di Pediatria e psichiatria di giovani pazienti che necessitano di assistenza dopo un tentativo di suicidio o gesti autolesionistici. Le pediatrie in certi momenti sono completamente occupate da pazienti con disturbi mentali, mentre in epoca pre Covid poteva esserci un paziente, al massimo due[17]”.

Sulla stessa linea il parere di altri esperti. Angelo Fioritti, direttore del Dipartimento Salute Mentale Azienda USL Bologna, ha dichiarato: “Durante la pandemia sono aumentate le persone che si rivolgono ai centri di salute mentale, ma soprattutto sono aumentate le patologie codificate come malattie mentali, in particolare tra i giovanissimi”. Giuseppe Nicolò, direttore Dipartimento Salute Mentale ASL Roma 5, ha aggiunto: “Non allocare risorse sulla salute mentale ci impedisce anche di investire sul futuro delle nuove generazioni[18]“.

Se quanto riportato e’ grave per il pregiudizio alla salute degli Italiani, e’ grave anche per le casse dello Stato.

“Decisori centrali, regionali e locali dovrebbero promuovere efficaci azioni di prevenzione mirata e un tempestivo e facilitato accesso ai percorsi di diagnosi e cura” è l’allarme lanciato recentemente da Francesco Saverio Mennini, professore di economia sanitaria dell’Università Tor Vergata di Roma e presidente della SiHTA, Società italiana di Health Technology Assessment. “Politiche sanitarie oculate dovrebbero puntare a fare prevenzione e ridurre la progressione della malattia e la conseguente spesa incrementale generata dai livelli maggiori di disabilità mediante diagnosi e presa in carico precoci. Infatti non sempre un incremento di pazienti diagnosticati e adeguatamente trattati genera un incremento del costo della malattia; anzi, nel medio periodo accanto a un miglioramento del livello di salute si viene anche a determinare una riduzione dei costi diretti, diretti non sanitari e indiretti e sociali[19]”.

La sanità bloccata crea disparità sociali

I danni di una sanità bloccata si misurano non solo in termini di salute, ma anche dal punto di vista sociale, di accresciuto gap tra chi può curarsi e chi non può. Nelle conclusioni riportate sull’ultimo report dell’osservatorio nazionale screening, che ha misurato i controlli persi nell’anno della pandemia, si sottolinea come in questo nuovo quadro la prevenzione sia ancora di più alla portata dei più ricchi, perchè vista la difficoltà a recuperare il ritardo accumulato, le fasce di popolazione più abbienti e con livelli di istruzione più elevati hanno deciso di ricorrere a offerte di prevenzione individuate nel privato. Le persone quindi che potrebbero risentire maggiormente dell’impatto negativo del corto circuito sanitario sarebbero quelle appartenenti alle fasce di popolazione più fragili.

L’impatto dell’infodemia di COVID-19 sui comportamenti della popolazione

La portata di questa pandemia ha fatto sì che in parallelo all’epidemia virale si osservasse anche quella che è stata definita “infodemia”, ovvero una massiccia iper-diffusione di notizie sulla malattia veicolate dai media. Informazioni che sono state spesso comunicate in modo distorto, sensazionalistico e senza un adeguato supporto scientifico, con il rischio di indurre nella popolazione comportamenti pericolosi, come quello di tenersi lontana da ospedali e da visite.

“Muore a 30 anni di Coronavirus”, “Giovane infermiera accasciata sul volante dell’ambulanza dopo turni massacranti”, “muore medico colpito dal Covid-19”, si assomigliavano un pò tutti i titoli ad effetto che negli ultimi mesi del 2020 quotidianamente la stampa proponeva in maniera martellante.

Una deriva allarmistica degli organi di informazione più seguiti che faceva leva sulla paura delle persone e che lasciava ben poco spazio all’approfondimento, al ragionamento e al raziocinio, ignorando completamente approfondimenti, confronti e stime.

Il risultato è stato che più della metà (55%) degli italiani ha avuto paura di andare al pronto soccorso e in ospedale per il rischio di contrarre il virus. Lo stesso timore si è concretizzato anche quando si trattava di farsi visitare da un medico specialista in ospedale (45%). Lo ha rivelato un sondaggio di Incisive Health condotto in Francia, Germania, Italia, Spagna e Gb[20].

Tutti i dipartimenti di emergenza hanno ridotto il loro lavoro. Il risultato indiretto è il calo dei ricoveri urgenti, che avvengono di solito quando un malato che si presenta al dipartimento di emergenza viene inviato in reparto.

La terapia domiciliare: in Italia un tabù, ma avrebbe evitato di intasare gli ospedali

E’ ormai passato un anno e mezzo da quando il 30 gennaio, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato l’emergenza internazionale per il nuovo coronavirus, ma in Italia non ci si è mai concentrati sulla cura,

Eppure alla fine dello scorso novembre, l’Istituto Mario Negri aveva elaborato un protocollo[21] per il trattamento a domicilio dei pazienti Covid che conteneva parecchie novità anche rispetto alle raccomandazioni dell’Istituto della Sanità. In buona sostanza, all’insorgere dei primi sintomi si predispone subito una terapia senza aspettare l’esito del tampone, e quindi prevenendo la moltiplicazione del virus, che progredisce molto velocemente proprio nei primi 7-10 giorni.

Al posto della Tachipirina, veniva suggerito l’uso dell’Aspirina, e in caso di dolori subentrava l’Aulin, sdoganando così i farmaci antinfiammatori che in questo nuovo approccio alla terapia domiciliare vengono usati subito. Fino ad arrivare, nei casi più seri e sempre sotto la guida di un dottore, all’utilizzo del cortisone, che durante la prima ondata, nella primavera del 2020, era stato quasi proibito in via più o meno ufficiale.

Il nuovo metodo era stato adottato da una trentina di medici di famiglia che l’avevano sperimentato su una platea di cinquecento pazienti. Ma era pur sempre una proposta, per quanto autorevole, messa a punto da Fredy Suter, per dodici anni primario di Malattie infettive al Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e da altri specialisti, e coordinata dall’istituto di ricerca diretto da Giuseppe Remuzzi. Mancavano i dati, quelli che in medicina dividono le illusioni dalla realtà. Adesso ci sono. E vengono presentati anche con onestà.

Si tratta di uno studio che mette a confronto l’esito clinico di novanta pazienti colpiti da Covid e trattati all’esordio a domicilio con il nuovo protocollo senza aspettare il risultato del tampone nasofaringeo, con quello di altri novanta pazienti Covid comparabile per età, sesso e comorbilità trattati con diversi regimi terapeutici. Ebbene, il metodo del Mario Negri, chiamiamolo così per necessità di sintesi, non fa miracoli ma funziona. Il tempo di guarigione dai sintomi peggiori, dalla febbre ai dolori muscolari e articolari, è pressoché uguale in ognuno dei due gruppi. Una media di 18 giorni per il trattamento raccomandato contro i 14 giorni dell’altro segmento. I segni più leggeri della malattia, come la perdita dell’olfatto e l’affaticamento, persistono molto meno nei novanta pazienti curati con il protocollo in questione, il 23 per cento contro il 73%. La grande differenza si registra sul punto più delicato. Solo due pazienti su 90 (2,2%) del gruppo di riferimento sono finiti in ospedale rispetto ai 13 su 90 (14,4%) dell’altro gruppo. I giorni complessivi trascorsi in nosocomio crollano a 44 contro 481, e i costi cumulativi per i trattamenti ordinari, intensivi e subintensivi, sono di 28.000 euro contro 296.000.

Il risultato di questa ricerca è che è la sindrome infiammatoria che conduce all’ospedale. Prevenirla equivale a ridurre i ricoveri, evitando così la saturazione dei nostri istituti di cura, che poi è il grande tema di questo dossier.

C’è un altro aspetto che non rientra in alcuna statistica ma assume sempre più importanza, ed è il coinvolgimento dei medici di famiglia, che diventano così l’autorità di riferimento in questa corsa alla guarigione evitando l’ospedale.

Lo tsunami coronavirus era imprevedibile, ma c’è una trincea che è stata travolta e da lì si dovrebbe ripartire: la medicina territoriale.

Terapia domiciliare Covid, Speranza ricorre al Consiglio di Stato

Il Senato della Repubblica Italiana, l’8 aprile scorso, ha espresso con votazione praticamente unanime la necessità di impegnare il Governo per istituire un tavolo di lavoro per la revisione delle linee guida nazionali per la cura domiciliare precoce, tenendo conto delle esperienze dei medici del territorio. Le fondamenta di questa tipologia di cura, in special modo durante una pandemia, sono sostanzialmente due: la libertà dei medici di fare riferimento alla propria esperienza e formazione per curare i pazienti in “scienza e coscienza”, con libertà prescrittiva dei farmaci ritenuti più efficaci e la necessità di agire tempestivamente, ovvero entro le prime 72 ore, differentemente dalla “vigile attesa con Paracetamolo” sostenuta dalla ormai decaduta linea guida nazionale (vedasi decisione del Tar del Lazio del 7 marzo scorso)»

Il grande mistero è per quale motivo Roberto Speranza abbia ostacolato in ogni modo le cure domiciliari per il Covid, ne esistono varie a cui ci sono dedicati luminari come Luigi Cavanna, Andrea Mangiagalli[22]. Eppure manca ancora un protocollo nazionale che permetta a tutti medici italiani di utilizzarle a dovere. E perché manca? Perché il Ministro della Salute si ostina a tenerlo fermo con ogni mezzo necessario.

Attualmente le linee guida dell’Aifa prevedono per i pazienti covid ai primi sintomi, paracetamolo e vigile attesa, questo nonostante Giorgio Palù, Presidente dell’Agenzia del Farmaco abbia detto che la tachipirina è inutile e persino dannosa.

Contro queste linee guida ha fatto ricorso il al Tar il Comitato cura domiciliare che da oltre un anno raccoglie sul territorio esperienze, dati e contributi di medici anche molto autorevoli.

Tanto che il tribunale amministrativo ha dato ragione al Comitato e ha bloccato le linee guida di Aifa.

Ma il ministero incredibilmente ha impugnatola decisione di fronte al Consiglio di Stato, e quest’ultimo ha preso una decisione bizzarra: ha stabilito che le decisioni di Aifa, benchè sbagliate, debbano restare in vigore: meglio indicazioni scorrette che nessuna indicazione.

Ma c’è dell’altro. E ce lo racconta La Verità[23].

Dopo mesi e mesi di attesa, il Comitato per le cure domiciliari ha partecipato ad un incontro con Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali). Al tavolo erano presenti fior di professionisti: Matteo Bassetti, Giuseppe Remuzzi. La riunione avrebbe dovuto costituire il primo passo per la creazione di un protocollo domiciliare valido, eppure fin da subito si è capito che qualcosa non tornava. Bassetti ha fatto sapere a Grimaldi di non aver ricevuto incarichi ufficiali per la compilazione di un protocollo. Nel giro di poche ore, si è scoperta la beffa.“Ieri ho parlato a lungo con Pierpaolo Sileri, dice Grimaldi alla Verità e mi ha detto che un protocollo sulle cure domiciliari lo sta già facendo il ministero. Speranza, all’insaputa di tutti, ha dato incarico al Dipartimento prevenzione di Gianni Rezza di approntare un testo.

La bozza è stata prodotta il 30 marzo, ma Sileri l’ha ricevuta solo un mese dopo. In buona sostanza il Ministro ha tagliato completamente fuori dai lavori il Comitato cure domiciliari.

IL problema è che così facendo taglia fuori anche tutte le evidenze raccolte sul campo da un migliaio di medici italiani e da illustri ricercatori, i cui rimedi sono riusciti a ridurre le ospedalizzazioni fino al 90%.

Speranza ha scavalcato Sileri, ma ha ignorato pure una mozione del Senato votata all’unanimità, la quale impegnava il governo a formulare un protocollo proprio tenendo conto delle esperienze territoriali.

Fior fiore di esperti sostengono che la tachipirina non serva o peggio sia dannosa nel trattamento precoce del virus. Ma allora perché le linee guida di Aifa che la prevedono sono ancora in vigore? A prevedere la tachipirina, a quanto risulta, non sono solo le linee guida di Aifa ma pure il protocollo a cui sta lavorando in totale solitudine il ministero… 

Qual’è la ragione di tale scelta?

Inoltre se su ordine di Speranza il ministero ha prodotto un protocollo sulle cure domiciliari già il 30 marzo, per quale motivo non l’ha ancora approvato? perché continua ad aspettare? sappiamo che le cure domiciliari possono salvare vite e ridurre la pressione sugli ospedali, però a Roma tentennano. Davvero surreale…


[1] https://www.fanpage.it/attualita/italia-terzo-paese-al-mondo-per-letalita-4-morti-covid-ogni-100-casi-virus-piu-cattivo/

[2] https://www.adnkronos.com/covid-30mila-morti-per-altre-malattie-trascurate_2difOiSOAXHlHbkOCeX1H5

[3] https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=93900

[4] https://www.corriere.it/cronache/21_gennaio_20/mistero-30mila-morti-piu-che-non-sono-attribuiti-covid-82b9e0ca-5a99-11eb-89c7-29891efac2a7.shtml?refresh_ce-cp

[5] https://altems.unicatt.it/altems-report53.pdf

[6] https://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato5803023.pdf      –  pg.112

[7] https://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato5803023.pdf      – pg. 113

[8] https://www.degasperis.it/le-cause-di-morte-in-italia.html

[9] http://dati.istat.it/Index.aspx?QueryId=26428#

[10] http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=85062

[11] https://www.agi.it/cronaca/news/2020-05-09/coronavirus-triplicata-mortalit-infarto-8563227/

[12]https://bologna.repubblica.it/cronaca/2021/04/08/news/sanita_non_solo_covid_i_dati_su_diagnosi_e_interventi_mancati-300904679/

[13] https://www.favo.it/sedicesima-giornata-malato-oncologico/rassegna-stampa/2030-tumori-nel-2020-posticipato-il-99-degli-interventi-al-seno-e-alla-prostata-subito-una-cabina-di-regia-per-definire-il-piano-oncologico-nazionale.html

[14] https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=95501

[15]https://www.ilsussidiario.net/news/covid-30-malati-salute-mentale-1-milione-di-pazienti-in-piu-disturbi-in-aumento/2161203/)

[16] https://www.esquire.com/it/lifestyle/tecnologia/a31895857/coronavirus-psichiatria/

[17] https://www.targatocn.it/2021/05/19/leggi-notizia/argomenti/attualita/articolo/malattie-mentali-nellaslcn1-mancano-posti-letto-in-pediatria-centri-diurni-e-comunita-idonee-p.html

[18] https://www.rtl.it/notizie/articoli/con-la-pandemia-in-aumento-le-malattie-mentali-a-rischio-bambini-e-giovan

[19] https://www.assocarenews.it/specialisti/neuroscienze/covid-depressione-in-aumento-lallarme-degli-psichiatri

[20] http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=86753

[21] https://fenice.marionegri.it/Download/1.Protocollo.pdf

[22] https://www.laverita.info/speranza-lockdown-protocollo-cure-casa-2652772980.html

[23] https://servizi.senato.it/stampa/rassegna/PDF/2021/2021-04-26/,DanaInfo=www.senato.it,SSL+2021042648366427.PDF

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