Draghi pontifica, ma è parte del problema

Se Lapalisse fosse nato a Roma e avesse fatto carriera tra Tesoro, BCE e palazzi di Bruxelles, oggi si chiamerebbe Mario Draghi. Il suo discorso al Meeting di Rimini ne è la prova: un florilegio di ovvietà e autoassoluzioni, condito dalla solita ricetta, «più Europa», che tradotto significa più vincoli, più burocrazia, più debito comune. 

Un’Europa senza politica, senza anima, senza valori, che il tecnocrate Draghi non riesce a comprendere, perché la politica – quella vera – non la capisce e, come ha dimostrato da Presidente del Consiglio, spesso addirittura la disprezza.

Draghi parte con la grande scoperta: «il 2024 sarà ricordato come l’anno in cui si è dissolta la convinzione che le dimensioni economiche dell’Europa bastassero a garantirle un ruolo geopolitico». Davvero? E chi è stato per decenni tra i principali architetti di questa Europa ridotta a supermercato senz’anima politica? 

Proprio lui, Mario Draghi, il banchiere che ha elevato il dogma della tecnocrazia a sistema di governo, rifiutandosi di confrontarsi con i partiti durante il suo governo e scegliendo di non misurarsi con una competizione elettorale. D’altra parte, c’è da capirlo: ce lo vedete voi uno come Mario Draghi nelle periferie ad ascoltare i problemi dalla sciura Maria? Ma per carità.

Puntualissimo arriva il piagnisteo: «abbiamo dovuto accettare i dazi degli Stati Uniti e l’aumento della spesa militare senza che ciò riflettesse appieno gli interessi strategici europei». Tradotto: gli USA difendono i propri interessi, l’Europa no. Ma dai. E ancora «l’Europa ha dato il contributo finanziario più ingente alla guerra in Ucraina ma ha contato zero nei negoziati». Piccolo dettaglio che Draghi dimentica: finché Donald Trump non è tornato alla Casa Bianca, la parola “pace” riguardo all’Ucraina non si poteva neppure pronunciare.

L’ex premier poi continua con la Cina che «non considera l’Europa un partner di pari livello e ci rende sempre più dipendenti dalle terre rare». Davvero una rivelazione folgorante, peccato che sia stata proprio la sua Europa a spalancare i mercati a Pechino, condannando le nostre industrie alla sudditanza. E mentre la Cina e la Russia si muovono con una visione secolare basata sulla continuità e sulla conservazione della propria identità, Draghi propone un’Europa che sembra voler cancellare ciò che è, diluendosi in un omogeneizzato politicamente corretto. 

Perché mai queste potenze dovrebbero rispettarci, se rinunciamo a difendere chi siamo? Il passaggio più surreale è quello sulla storia dell’Unione: «fu naturale sviluppare un sistema collettivo di tutela della democrazia e della pace. È insostenibile sostenere che staremmo meglio senza questa unione». Peccato che oggi proprio quell’Unione sia diventata una gabbia che soffoca la sovranità nazionale e paralizza qualsiasi decisione strategica. 

La soluzione di Draghi? Più burocrazia e debito comune, senza mai menzionare ciò che davvero manca all’Europa: una politica estera comune e un esercito europeo. Perché l’Europa non ha bisogno di più vincoli, ma di più politica, quella che Draghi, da tecnocrate, non ha mai capito. 

Durante il suo governo, ha evitato le questioni etiche, perché per lui i valori semplicemente non contano. Un approccio apolitico che, paradossalmente, ricorda il Movimento 5 Stelle, i cui disastri economici pagheremo per generazioni.

Quindi, ecco la soluzione di Draghi: «solo strumenti di debito comune possono finanziare i grandi progetti europei». Niente politica estera comune, niente esercito europeo: soltanto nuovo debito condiviso, cioè nuovi lacci per gli Stati e nuovo indebitamento per i cittadini. In sostanza, il male come cura del male. 

E mentre propone questa minestra riscaldata, ignora la “big picture” attuale: il vento della storia soffia verso leader come Giorgia Meloni e Donald Trump, che fanno politica guidati da una precisa visione del mondo radicata nei valori della civiltà occidentale. Meloni, che ha la politica nel Dna fin da ragazza, governa con l’istinto e una bussola morale che a Draghi manca. Trump, allo stesso modo, coniuga battaglie economiche con la difesa dell’identità contro la deriva woke, uno strumento dei globalisti – amici di Draghi – per destrutturare le nostre società, privandole di ogni identità.

Va da sé che le tre dimensioni – quella economica, quella identitaria e quella sociale – debbano essere parte di una visione complessiva, approccio che non ha mai nemmeno sfiorato quest’Europa e gente come Draghi, che ha concluso il suo discorso con un meraviglioso suggello lapalissiano: «l’Europa deve trasformarsi da spettatrice a protagonista attiva». Applausi. 

Peccato che sia proprio l’Europa dei Draghi a essersi ridotta a comparsa, mentre il mondo si divide tra Stati Uniti, Cina e le nuove potenze emergenti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un’Unione che non sa difendere i suoi interessi, che legifera sul diametro delle zucchine, che reprime il dissenso e comprime la democrazia, ma che non ha una politica energetica né militare comune. Eppure, invece di riconoscere il fallimento e fare autocritica, Draghi ci propone la stessa ricetta di Macron e dei suoi mini-emuli nostrani, Renzi e Calenda: costruire l’Europa delle élite contro quella dei popoli. 

In un momento in cui leader come Trump e Meloni dimostrano che il paradigma globalista è al capolinea, abbracciare la linea Draghi sarebbe un suicidio; la sua Europa priva di valori, politica e identità non può reggere la competizione con potenze che hanno ben chiaro chi sono e dove vogliono andare.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente in comunicazione strategica, esperto di branding politico e posizionamento internazionale, è autore di 12 libri. Inviato in tutte le campagne elettorali USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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