L’Italia non è un set dedicato alla fiction di Giuseppe Conte: “Il mio governo”. Per la regia di Rocco Casalino. Lo ha fotografato con precisione Alessandra Ghisleri, indicando nella flessione drastica dell’appeal del premier (la maggioranza dei partiti conta assai meno. Il che è tutto dire), l’inevitabile controcanto della realtà davanti all’evidenza della seconda ondata di Covid: l’esecutivo ha recitato la parte della cicala per tutta l’estate. Cicala “pavone”, dato che per mesi il premier e i suoi ministri (uno dei quali, Roberto Speranza, ha pure pubblicato un libro – subito ritirato – nel quale vantava di aver sconfitto il coronavirus…), hanno preferito autocelebrarsi come i primi della classe al mondo quando i mesi di bel tempo dovevano essere utilizzati, al contrario, per predisporre in silenzio un piano di prevenzione e dotare la nazione dei mezzi (di trasporto, medici) per fronteggiare il ritorno dell’influenza cinese.
Nulla di tutto questo è stato fatto: a meno di non considerare la figuraccia dei banchi a rotelle (ancora da consegnare), il caos tamponi, il mancato ampliamento delle terapie intensive come misure strutturali. E quando la curva dei contagi è tornata a impennarsi – attenzione, non per colpa delle «vacanze degli italiani» ma per il ritorno agli scambi commercial e di una dinamica semi-normale di relazioni naturali –, i nodi irrisolti sono venuti inevitabilmente al pettine.
Cosa ha pensato di fare Conte a questo punto? Ha scelto, sic et simpliciter, di scaricare l’onere della prova su quelle categorie che i compiti per il Covid invece li hanno fatti per bene: i commercianti, i ristoratori, i professionisti dell’intrattenimento. E con loro tutta l’enorme filiera che comprende il grosso dell’economia reale italiana.
Sono loro, per il governo giallo-rosso, i «sacrificabili» sull’altare del lockdown mascherato: tutti coloro che hanno già subito il primo stop e che per ripartire hanno accettato limitazioni, igienizzazioni, sanificazioni, rimodulazione della vendita, dei coperti, degli orari.
Con risultanti importanti, dato che non esistono notizie di focolai nei locali privati aperti al pubblico. Si può dire lo stesso su ciò che spettava al governo: trasporti, file ai drive-in, classi ancora pollaio? Non proprio. Eppure il premier ha scaricato la patata bollente della lotta alla curva ai lavoratori autonomi del piccolo e medio comparto.
Una scelta scellerata – scandita a suon di Dcpm contraddittori e non votati dal Parlamento – che ha scatenato una rabbia sociale comprensibile ed evidente. Rabbia copiosa che si è riversata democraticamente e spontaneamente nelle piazze nelle quali, come capita spesso, hanno trovato spazio pure frange marginali di facinorosi (guidati, nella stragrande maggioranza, da centri sociali, anarchici ed immigrati ma anche da gruppi di ultrà ed estrema destra) iper-mediatizzate dai network e dai partiti governativi con l’obiettivo di spaventare e delegittimare la protesta.
Una vera e propria operazione di disinformazione e un abuso sociale a cui Giorgia Meloni ha detto chiaramente “No”. Come? Interpretando in Parlamento come in piazza il diritto-dovere di rappresentare i ceti produttivi: dai piccoli ai medi, ai grandi, nessuno escluso. È questo il senso del presidio permanente, a due passi dal Palazzo, nel quale la leader di FdI ha attivato un centro di ascolto e di promozione di tutte le istanze di quelle professionalità che Conte chiama «sacrificabili». «Diamo voce alle categorie massacrate dai decreti del Governo, ai milioni di italiani che chiedono risposte» ha spiegato separando nettamente i lavoratori dai violenti i quali «non sono l’unica forma di protesta: molte persone chiedono solamente di essere ascoltate».
Il punto di partenza per la madrina dei conservatori è chiaro: il rispetto dei patti. Altro che finto decreto ristori. «Uno Stato giusto che decide di chiuderti per decreto deve aiutarti a sostenere i costi fissi», ha attaccato. Altrimenti? «È una condanna a morte annunciata per centinaia di migliaia di persone, economicamente parlando. Un fatto intollerabile». Alla luce delle mancate risposte del governo, che continua a rifiutare un’interlocuzione concreta con l’opposizione e con tutto il popolo delle partite Iva, Meloni assicura una cinghia di trasmissione perenne e concreta fra la piazza e l’Aula dei rappresentanti: «Continueremo a batterci, continueremo a fare tutto quello che possiamo fare per tirare fuori l’Italia da questa – che non è un’emergenza, perché emergenza significa situazione imprevista mentre questo era perfettamente previsto e annunciato. Questa è una calamità, anzi, sono due: il Covid e Conte. Speriamo che questo disastro si riesca a fermare, che si riesca a fermare il Covid e appena l’avremo fatto fermeremo l’altro disastro che è il governo Conte».
… Non ne parla più nessuno adesso… Direi che la terza calamità da fermare è Fontana.