È dura l’avventura… all’opposizione

Governare è complicato, ma fare opposizione richiede altrettanto delle capacità e una certa tenacia. Interpretare i sentimenti e le istanze di una minoranza forse spaventa meno rispetto al fatto di dover decidere il destino di milioni di persone, ma necessita delle mosse giuste al fine, non solo di conservare un tot di voti, ma di allargare il consenso con l’obiettivo di tornare poi, ad una successiva prova elettorale, ad essere maggioranza o entrare per la prima volta nei palazzi del potere esecutivo.

È doveroso non fare sconti al governo in carica, ma di fronte all’interesse nazionale, che è di tutti e spesso impone almeno una sospensione dei toni barricaderi, occorre dimostrare responsabilità altrimenti il rischio è quello di spaventare, allontanare gli elettori e infine rafforzare ancor più il governante di turno.

Allo stesso tempo, il senso di responsabilità nazionale deve essere ben dosato per non diventare o apparire complici del potere e una sorta di fotocopia della coalizione maggioritaria. Si sa, i cittadini prediligono sempre l’originale alle fotocopie. Insomma, bisogna essere capaci anche a fare opposizione e non tutti ne sono all’altezza. Si tratta inoltre di dover affrontare lunghe traversate del deserto, caratterizzate talvolta da illusioni e disillusioni, da piccoli progressi elettorali non decisivi e dalla lontananza dai centri decisionali.

Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, poi premiati, come è noto, alle ultime Politiche, hanno saputo attraversare più di un deserto prima di approdare a Palazzo Chigi. FdI, nato undici anni fa dalla fuoriuscita dall’allora Popolo della Libertà principalmente di Giorgia Meloni, Guido Crosetto e Ignazio La Russa, critici verso il Governo Monti, è stato sempre alla opposizione di tutti i governi succedutisi da Mario Monti a Mario Draghi. I consensi elettorali non sono sempre stati a due cifre, anzi, a lungo Fratelli d’Italia ha raggranellato poco più o poco meno del 4 per cento dei voti, rimanendo per anni la terza forza del centrodestra, dopo Lega e Forza Italia.

Eppure, quel “centrodestra nazionale”, questa fu la prima denominazione in cui si riconobbe la scissione dal PdL, non si è mai stancato di lottare e di andare oltre alle delusioni, e mai vi è stata, dalle parti di Via della Scrofa, una frustrazione tale da fare litigare, per esempio, i principali fondatori e dirigenti del partito. C’era e c’è un collante identitario, un progetto politico conservatore e patriota di lungo respiro, che è più forte e radicato degli alti e bassi elettorali, dei personalismi, e anche della stessa leadership di Giorgia Meloni. Alla fine, gli italiani hanno apprezzato in maggioranza la perseveranza e la coerenza di Fratelli d’Italia.

Ma non tutti sono ostinati e disposti a sacrifici come la Meloni e i suoi. In alcune “case” politiche, quando i voti non arrivano o ne giungono troppo pochi, e per il peso del consenso ottenuto tocca stare lontani dalle poltrone che contano, c’è chi perde anzitempo lucidità e pazienza, e inizia a scagliarsi non tanto contro gli avversari, bensì verso coloro i quali gli sono più vicini.

Le rese dei conti in famiglia, successive ad una sconfitta elettorale, sono un classico della politica italiana, soprattutto di quella di centro e di centrosinistra. L’ultima dimostrazione di ciò è stata offerta dalle due primedonne centriste Carlo Calenda e Matteo Renzi.

I due, che avrebbero dovuto fondere i loro rispettivi partiti, Azione e Italia Viva, in un unico contenitore centrista, distinto sia dal centrodestra che da Pd e M5S, hanno deciso di separare le loro strade, e lo hanno fatto in modo francamente tragicomico. Calenda dice che è Renzi a non volere più il cosiddetto Terzo Polo, e l’ex premier afferma la medesima cosa circa il leader di Azione.

Gli elettori rimasti della coppia centrista saranno sicuramente contenti di tale chiarezza. L’alleanza Calenda-Renzi, oltre ad aver forse compreso di non poter toccare palla per un po’ a livello nazionale, vista la solidità del Governo Meloni, ha collezionato una serie di batoste elettorali nelle Regionali di Lombardia, Lazio e Friuli Venezia Giulia. Ormai si è capito, una opzione terza non attrae perché siamo di fatto in un equilibrio democratico bipolare.

A dire il vero, i poli centristi indipendenti, a parte la meteora pentastellata, non hanno mai convinto durante gli ultimi trent’anni. Altresì, il Paese si è un po’ stufato del proliferare di piccole formazioni personalistiche, incentrate più sulla ricerca del potere da parte di un solo leader che su una identità e un progetto politico. Se le performance elettorali di Azione e Italia Viva insieme fossero state migliori, probabilmente non sarebbero volati gli stracci fra Calenda e Renzi, e, nonostante lo scarso feeling umano fra i due e la poca propensione di entrambi a condividere una leadership, vi sarebbe stata una forzata sopportazione reciproca. Ma la popolarità uscita dalle urne è quella che è, perciò, tanto il primo quanto il secondo non sanno reggere di fronte a periodi di magra e non sanno che farsene del ruolo di oppositori, fondamentale in democrazia, preferendo il potere, spesso, il potere per il potere.

Carlo Calenda avrebbe voluto Mario Draghi a Palazzo Chigi all’infinito, così da potersi ritagliare una fetta di potere duraturo, ma le cose sono andate un poco diversamente.

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Roberto Penna
Roberto Penna
Roberto Penna nasce a Bra, Cn, il 13 gennaio 1975. Vive e lavora tuttora in Piemonte. Per passione ama analizzare i fatti di politica nazionale e internazionale da un punto di vista conservatore.

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