La maggior parte dei miei lavori di pensatore storico sono state guidate da due percezioni forti, quella delle catastrofi europee del XX secolo, e quella dell’ablazione della nostra memoria, altrimenti detta la coscienza della nostra incapacità di raccogliere le sfide. Ma ecco che nel tramonto della mia esistenza, osservo i primi segni di un risveglio a cui ho sempre creduto senza sperare di vederlo da vivo.
Non ho mai ammesso che la decadenza e il declino europei fossero delle fatalità. A differenza di tanti intellettuali che vedo ciarlare, sono stato innanzitutto nella mia gioventù un combattente prima di diventare storico e saggista. Questo spiega probabilmente, assieme a alcuni tratti caratteriali, il mio sguardo per nulla convenzionale sulla storia in corso. La storia non è una scienza esatta. Sebbene si pretenda che sia una scienza, di fatto non lo è ma utilizza metodi scientifici. È sapere e poesia. Quel sapere non è destinato alla soddisfazione dei ricercatori, professori o eruditi. Ha per funzione quella di svelare i misteri del passato, la nascita e il declino delle potenze, il comportamento e le ragioni degli attori piccoli e grandi, le cause e le conseguenze. Ha per funzione quella di fare luce su noi stessi e sul mondo incerto in cui viviamo. Quel sapere può restituirci la nostra memoria spezzata. Procede per analogie e paragoni. Non è neutro. È creatore di significato. Ecco perché questo sapere è contemporaneamente pericoloso e inebriante per coloro che, al di là della curiosità e della distrazione, ne traggono ragioni d’essere, di agire e di sperare.
Così ho rubato al passato tutto quello che poteva apportarmi per capire il presente e fiutare le promesse del futuro, anche quando erano cupe. Mi sono tenuto alla larga dalle querelle scolastiche che hanno diviso gli universitari, traendo benefici dagli uni e dagli altri. Basandomi sulla conoscenza del lungo passato delle grandi civiltà, non credo alle fatalità storiche. Non più di quelle che immaginavano Vico o Spengler rispetto alle fatalità teorizzate da Marx o più di recente da un Fukuyama. Mi ci sono spesso scontrato.
Come non essere ribelli oggi? Alla vigilia delle guerre di religione, nel suo Discorso sulla servitù volontaria, Étienne de La Boétie , amico di Montaigne, aveva individuato le forme sornione di tirannie velate che subiamo chiudendo gli occhi.
Nei nostri paesi, l’epoca è così satura di tirannie mascherate. È contro di esse che sono insorto.
Esistere è combattere quello che mi nega. Essere un ribelle non consiste nel collezionare libri proibiti, sognare complotti fantasmagorici o darsi alla macchia nei Carpazi. Significa essere legge a sé in virtù di una fedeltà a una legge superiore. Aggrapparsi a sé stessi di fronte al nulla. Badare a non guarire mai dalla propria gioventù. Preferire mettersi il mondo dietro le spalle che mettersi a faccia in giù. Nelle disgrazie, mai porsi la domanda dell’inutilità della lotta. Agiamo perché sarebbe indegno abbassare le braccia, e vale di più morire combattendo che arrendersi.
Il primo atto per cui ci rifiutiamo di essere sottomessi consiste sempre nel liberarsi dalla paura o dal fascino delle parole. Le parole suscitano immagini toniche o tossiche, turbanti o inebrianti. È attraverso le parole, attraverso il loro potere seduttore, perfido o intimidatorio che un sistema dominante rinchiude coloro che vuole neutralizzare, ben prima di ricorrere ad altre armi più temibili. Scegliere il nome con cui indichiamo un avversario, chiamarlo, è già imporsi a lui, farlo entrare senza che sappia nel suo stesso gioco, preparare il suo annientamento o, al contrario, liberarsi della sua impresa. Così fecero, per essere liberi, l’imperatore Giuliano, Macchiavelli, Voltaire, Nietzsche o Solženicyn.
Le parole sono armi. Dare a sé stessi le proprie parole, e inizialmente darsi un nome, è affermare la propria esistenza, la propria autonomia, la propria libertà. Così possiamo assumere il nome di ribelli.
Il ribelle è in rapporto intimo con la legittimità. Si definisce contro ciò che percepisce come illegittimo. Davanti all’impostura o al sacrilegio, è per sé stesso la sua legge ed è fedele alla legittimità schernita. La ribellione innanzitutto dello spirito, prima del ricorso alle armi. La volontà di ingaggiare la lotta foss’anche senza speranza si è incarnata nell’Antigone di Sofocle. Il suo esempio ci introduce nello spazio della legittimità sacra. Antigone è una ribelle per fedeltà. Sfida il decreto di Creonte per rispetto alla tradizione trasgredita dal re. Poco importa che Creonte avesse le sue ragioni. Queste non annullano il sacrilegio. Antigone si crede quindi legittimata nella sua ribellione e ne accetta il prezzo. Possiamo fare nostro questo esempio trasmesso da Sofocle. Appartiene alla nostra tradizione.
Dominique Venner, Un samurai d’Occidente, Roma 2016.