Europa, il declino non è un destino

Il discorso che Donald Trump ha tenuto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è un atto politico che segna la fase storica che stiamo vivendo. Con la sua consueta chiarezza, ha messo sul tavolo i punti decisivi: difesa dei confini, stop all’immigrazione illegale, fine delle guerre infinite, rilancio dell’economia reale e rifiuto del dogma green.

Trump non si è limitato a parlare all’America, ha parlato all’Occidente e, rivolgendosi a noi europei, ha detto che se vogliamo sopravvivere dobbiamo smetterla di inseguire ideologie che ci indeboliscono e tornare a difendere ciò che siamo.

Su questo terreno Giorgia Meloni si è dimostrata in piena sintonia. Commentando a caldo, ha riconosciuto di condividere molti dei passaggi centrali del discorso: la necessità di riformare gli organismi multilaterali che non funzionano, la critica al Green Deal ideologico che ha minato la competitività europea, la chiarezza sulla questione palestinese. Meloni ha ribadito che non si può riconoscere uno Stato di Palestina senza condizioni: prima il rilascio degli ostaggi e l’esclusione di Hamas. È lo stesso principio affermato da Trump, che ha ricordato come sia impossibile interloquire con un’organizzazione terroristica che rifiuta la pace e pratica la violenza come metodo. Anche su questo punto, Trump e Meloni parlano la stessa lingua: nessuna legittimazione per Hamas, nessuna concessione al terrorismo.

Questa coesione non è casuale. È la prova che esiste un asse occidentale fondato sulla realtà, non sull’ideologia. È la stessa logica che guidò Trump nel 2019, quando nello storico discorso all’ONU affermò che «il futuro appartiene ai patrioti, non ai globalisti». Quella frase, allora derisa dai media, oggi è la bussola che segna la differenza tra chi vuole difendere popoli e nazioni e chi continua a dissolverli nel mare del politicamente corretto.

Trump non parla mai a caso. Nel 2019 disse che gli Stati Uniti non avrebbero più sacrificato la propria sovranità sull’altare delle élite globaliste; oggi, tornato alla Casa Bianca, sta mettendo in pratica quella visione: difesa dei confini, rilancio dell’industria, pace attraverso la forza.

C’è un filo diretto che lega Trump e Meloni. Entrambi hanno capito che la priorità è smascherare e superare le ideologie che hanno paralizzato l’Occidente: l’ambientalismo spinto fino all’autolesionismo, l’immigrazionismo senza regole, il relativismo culturale che rinnega la nostra identità. Non a caso Meloni ha parlato esplicitamente di competitività e di sovranità, due parole che in Europa fino al suo arrivo a Palazzo Chigi erano considerate tabù.

Lo scorso febbraio, al vertice di Monaco, il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance aveva lanciato un messaggio chiarissimo agli europei: «il vero nemico dell’Europa è interno». Quelle parole furono accolte con profondo fastidio dalle élite europee, ma oggi risuonano come un programma politico: l’America guida di nuovo, ma chiede al Vecchio Continente di smettere di fare la parte del peso morto.

È quello che auspicavo prima delle elezioni presidenziali del 2024: l’America di Trump sarebbe tornata ad essere il baluardo dell’Occidente, e così è stato. Non si tratta solo di geopolitica o di economia. È una questione identitaria: Trump sta spingendo l’Europa a rioccidentalizzarsi, a scrollarsi di dosso l’ubriacatura woke, a liberarsi dalle scellerate politiche globaliste che hanno messo in ginocchio le nostre imprese, aperto le nostre frontiere e relativizzato le nostre radici.

Trump sta costringendo l’Europa a guardarsi allo specchio. Sta ricordando a tutti che la forza dell’Occidente non sta nei regolamenti di Bruxelles, ma nella capacità di difendere confini, imprese, famiglie e libertà.

Ora la palla passa a noi: l’America ha rialzato la testa, l’Europa deve decidere se seguire questo movimento di rinascita o restare prigioniera delle sue contraddizioni. Meloni ha dimostrato che una leadership patriottica in Europa è possibile, ma serve che questo approccio diventi la regola, non l’eccezione.

E qui non ci possono più essere ambiguità. Proprio oggi il Partito Popolare Europeo, con alcuni suoi rappresentanti, ha votato a favore dell’immunità a Ilaria Salis. Lo hanno fatto all’indomani del funerale dell’ultima vittima della violenza di quella stessa matrice, Charlie Kirk, e dopo le devastazioni compiute «in nome della pace» dai fiancheggiatori dei terroristi di Hamas. È una vergogna politica e morale.

Questo è il momento di decidere da che parte stare o, per dirla con Berlusconi, di fare una scelta di campo: o con l’Occidente dei patrioti, o con l’accozzaglia di globalisti e sinistra radicale. O con chi si batte per la libertà d’opinione, o con chi grida al fascismo e giustifica la violenza come arma di lotta politica.

Non possono esistere ambiguità, o si sta con l’Occidente o con i suoi nemici dichiarati. Noi sappiamo benissimo da che parte stare, ed è ora che qualcuno si chiarisca le idee. Una volta per tutte.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente in comunicazione strategica, esperto di branding politico e posizionamento internazionale, è autore di 12 libri. Inviato in tutte le campagne elettorali USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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