Il 10 febbraio è il Giorno del Ricordo.
Istituito, grazie soprattutto all’impegno di Alleanza Nazionale, con la legge 92 del 30 marzo 2004, nasce per ricordare le foibe e il conseguente esodo che colpì gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia durante la seconda guerra mondiale e soprattutto a guerra finita.
Una violenza terribile e ingiustificata.
Già dal 1943 cominciò quel piano, criminale e terribile, che avrebbe portato l’Istria, Fiume e la Dalmazia a svuotarsi del 90% degli italiani che erano maggioranza assoluta nella regione.
Non fu solo questione di danni collaterali o vendette, comunque non giustificabili.
Perché la violenza più feroce e diffusa avvenne alla fine della guerra.
In tempo di pace.
I circa 10.000 infoibati non erano fascisti, criminali o colpevoli di qualcosa. Erano italiani che ostacolavano, solo con la propria esistenza, il progetto del Maresciallo Tito di costruire una Jugoslavia comunista nella quale non c’era posto per oppositori, veri o presunti.
Ma nemmeno per persone che avessero, semplicemente, idee diverse.
Gettare delle persone, morte o ancora vive, in questi buchi o nel mare adriatico, non serviva soltanto a uccidere e nascondere i cadaveri. Era un modo di cancellare un’identità.
La storia di Norma Cossetto, infoibata la notte del 4/5 ottobre 1943, è emblematica: era una studentessa universitaria, una giovane supplente di 23 anni.
La sua colpa? Essere figlia di un uomo importante e quindi da eliminare. Lui non c’era e allora i partigiani prendono lei, la violentano ripetutamente, e l’uccidono.
Ma accanto alla sua ce ne sono troppe altre.
Penso a Don Angelo Tarticchio. Un prete.
Infoibato anche lui, saranno 50 gli uomini di fede uccisi, e ritrovato nudo, con il fil di ferro come corona di spine e i testicoli in bocca.
Una violenza assoluta e senza limiti.
Una violenza perfettamente riuscita.
Per quanto tempo non si è conosciuta la storia degli infoibati e degli esuli? Eppure non ha riguardato poche persone.
Evidentemente la loro storia e il loro ricordo non dovevano essere raccontati e i nostri fratelli potevano e dovevano rimanere in fondo a quei buchi senza speranza di giustizia.
Alla fine della seconda guerra mondiale la violenza non si arrese ma mutò. E alle eliminazioni, alle incarcerazioni, alle repressioni si aggiunse altro.
E cioè la distruzione di costumi e libertà ad opera di Tito e della sua ideologia comunista: “Quest’ultima scatenò, in quelle regioni di confine, una persecuzione contro gli italiani, mascherata talvolta da rappresaglia per le angherie fasciste, ma che si risolse in vera e propria pulizia etnica, che colpì in modo feroce e generalizzato una popolazione inerme e incolpevole.
La persecuzione, gli eccidi efferati di massa – culminati, ma non esauriti, nella cupa tragedia delle Foibe – l’esodo forzato degli italiani dell’Istria della Venezia Giulia e della Dalmazia fanno parte a pieno titolo della storia del nostro Paese e dell’Europa”.
Parole definitive quelle del Presidente Sergio Mattarella.
Con il Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 l’Italia perse l’Istria, Fiume e la Dalmazia.
Terre che erano legate, culturalmente, all’Italia da sempre se già nel primo secolo avanti Cristo il geografo greco, Strabone, identificava in Pola il confine d’Italia.
Oltre duemila anni fa.
E allora questa storia ci appartiene perché italiani. Questa storia ci appartiene perché gli esuli furono accolti a sputi, sassi e insulti dai comunisti nostrani e poi messi in campi profughi in cui le condizioni di vita erano terribili fra freddo, promiscuità e degrado.
Ci riguarda perché alla stazione Bologna, il 18 febbraio 1947, i sindacalisti rossi gettarono sui binari latte e cibo per impedire che gli esuli, compresi bambini e anziani, fossero rifocillati.
I nostri fratelli trattati come criminali.
Quello che questa storia deve insegnarci, e farci impegnare, è che possiamo essere Nazione solo se rispettiamo noi stessi e il dolore vissuto.
Confrontarsi sulle vicende storiche è fondamentale ma, ancora di più ricordare quello che è successo e stringerci nel ricordo.
“Esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante. Ma oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è quello dell’indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi”.
Le parole di Sergio Mattarella rappresentano la direzione a cui dobbiamo tendere.
Dobbiamo intitolare strade, piazze, monumenti ai martiri delle foibe e agli esuli. Dobbiamo realizzare mostre, libri, film.
Ma soprattutto dobbiamo “commemorare” la nostra storia. Commemorare vuol dire “ricordare insieme” e quando lo facciamo diventiamo una comunità che è l’unico modo per rispettare il dolore di chi ha perso tutto per rimanere italiano e per costruire un’Italia migliore.
E per escludere, dalla società e dalla storia, quei pochi, ma sempre troppi, che ancora giustificano, minimizzano, negano la tragedia dei 10.000 infoibati e dei circa 350.000 esuli. Che erano e sono italiani.
Come noi.