Le recenti parole di Lady Gaga a “Che tempo che fa” con cui ha sostanzialmente definito la mancanza approvazione del ddl Zan «un disastro», in prima serata e senza contraddittorio, sono solo l’ultimo esempio di un “pensiero unico” progressista che ritiene di avere l’esclusiva sul tema dei diritti, in ogni sua accezione. Dall’immigrazione alla sessualità, chiunque si oppone alla lettura che vede in prima fila compattamente schierati grandi media, giornali, social, intellettuali e multinazionali viene automaticamente descritto come un retrogrado fuori dal tempo.
Pur avendo un’indubbia egemonia mediatica e culturale, l’establishment cosmopolita figlio del marxismo e del «vangelo unico progressista» che unisce sinistra no-border e alta finanza, si dipinge come costantemente sotto attacco, con grande abilità dialettica ma poca attinenza con la realtà. Troppo spesso, le battaglie in favore dei diritti rappresentano principalmente armi per squalificare qualsiasi visione del mondo avversa. L’interlocutore che mette in dubbio i dogmi dei “padroni del discorso” viene così bollato con l’etichetta di “omofobo” o “razzista”, disumanizzato e messo ai margini del dibattito.
Sarebbe invece il caso di affrontare il tema con maturità e problematizzare letture troppo semplicistiche e interessate, partendo innanzitutto da una riflessione storica: nel corso dei secoli, l’affermazione di alcuni «diritti» altro non è stata che la conseguenza di determinate situazioni ed evoluzioni culturali, nonché di precisi atti formulati da comunità politiche. I diritti come elementi astratti validi per tutti in ogni parte del globo, semplicemente non esistono. Basti pensare a come la parola stessa sia declinata e intesa in maniera diversa a seconda del paese, della religione e del bagaglio culturale di chi la pronuncia. Si pensi inoltre a come la bandiera del diritto e dell’uguaglianza universale sia servita a molte grandi potenze per imporre i propri interessi nazionali rovesciando o destabilizzando governi ostili (Libia e Iraq solo per fare due esempi).
Secondo il filosofo francese Alain De Benoist, diritti umani sono diventati «l’armatura ideologica della globalizzazione» con cui i popoli e le culture vengono livellati sul modello del «finanzcapitalismo» descritto da Luciano Gallino. I doveri e il senso comunitario lasciano spazio all’individualismo sfrenato e all’imposizione del “politicamente corretto”.
Il diritto a un padre e una madre e quello dei popoli ad esistere
I diritti non sono infinti. È la politica che dovrebbe decidere quali strade percorrere, quali diritti promuovere a seconda degli equilibri interni e globali, raccogliendo e interpretando le pulsioni stesse della società e del popolo. È la politica che dovrebbe individuare i gruppi da tutelare e le misure prioritarie per lo sviluppo nazionale, programmando i decenni a venire. È la politica che dovrebbe decidere se alcune riforme rispondono principalmente ai capricci individualisti di minoranze, agli interessi di oligarchie economiche o sono effettivi progressi per la comunità. Nessuna misura è neutra, perché ogni legge e provvedimento è anche un messaggio culturale.
Ad esempio, sui temi sollevati dal Ddl Zan, di fronte a chi promuove la negazione delle differenze di genere (la cosiddetta ideologia gender) o le adozioni gay, si può tranquillamente affermare che queste ledano il «diritto ad avere un padre e una madre». Il tutto nel quadro di una visione del mondo che concepisce la differenza biologica e “spirituale” tra i due sessi (e già il solo nominarla espone a rischi, come testimonia il caso-Barbero) come meravigliosa fonte di ricchezza su cui si deve continuare a fondare la società, senza nulla togliere alla libertà sessuale delle persone. La famiglia dovrebbe essere un nucleo fondato sul sacrificio e sull’amore ma principalmente un dovere civile basato sui figli, come è sempre stato, con diverse declinazioni, in quasi tutte le società tradizionali fino all’articolo 29 della nostra Costituzione. La famiglia è la cellula fondamentale per preservare la continuità storica di una comunità, che può esistere solo se si concepisce come passato, presente e futuro.
Infine, all’odio per i confini e all’obbligo di accoglienza si dovrebbe rispondere col «diritto a non emigrare» che postulò tra gli altri Papa Benedetto XVI. Lo sradicamento dalla terra natia indebolisce le nazioni di partenza, spesso private dei giovani e delle classi medie su cui dovrebbero fondare il loro sviluppo, quanto quelle di arrivo se hanno già problemi a livello di occupazione, criminalità e degrado delle periferie. Senza contare che spesso talune culture o religioni potrebbero generare problemi di lungo periodo a livello di integrazione nel tessuto sociale del paese ospitante. Si tratta di processi delicati e violenti, che per dare frutti devono essere graduali e controllati, anche per il rispetto di chi emigra: i casi delle banlieus francesi, della Svezia o di città come Molenbeek in Belgio, diventate no-go zones incontrollabili, dovrebbero dirci qualcosa.
In definitiva, il diritto dei popoli ad esistere, a tutelare le proprie radici e il proprio avvenire è oggi quello maggiormente a rischio e che andrebbe dunque tutelato con più forza. Solo con una precisa identità le diverse nazioni possono incontrarsi, scambiarsi proficuamente idee ed esperienze e cooperare a livello culturale e commerciale, verso un sistema in cui ognuno possa trovare il suo posto senza obbedire a logiche sradicanti o materialiste. Le stesse che denunciava l’intellettuale del Burkina Faso Joseph Ki-Zerbo, quando accusava le Ong di essere il veicolo degli interessi francesi e dell’esportazione del modello occidentale in Africa. In Italia, i confini per cui sono morti i nostri avi hanno favorito la nascita di una comunità unita da un patto sociale e lo sviluppo di un sistema economico messo ogni giorno di più a repentaglio dalle spinte del «globalitarismo», come disse Marcello Venziani. La battaglia in favore di questa identità contiene più diritti di quanto pensino i cosmopoliti figli del nostro tempo.