George Simion ha acceso la speranza

Siamo arrivati a Bucarest in un clima che sembrava già segnato da una sfiducia collettiva. Una città bellissima, vibrante, ma appesantita da qualcosa di profondo. Una tensione che non si manifestava con urla o proteste di piazza, ma che si leggeva nei silenzi, negli sguardi, nei sospiri dei romeni che ci parlavano della loro disillusione. Sei mesi fa il popolo aveva scelto, ma quella scelta – la vittoria di Calin Georgescu – era stata cancellata con un colpo di spugna, senza prove, senza trasparenza, senza vergogna. Una ferita ancora aperta.

Ed è in quel vuoto che si è inserita la sfida di George Simion. Una sfida nata dal basso, come tutte le rivoluzioni vere. Una sfida che non ha avuto il sostegno delle grandi banche, delle fondazioni internazionali, dei giornali blasonati. Nessun copione preconfezionato, nessun portavoce impettito, nessuna regia mediatica. Solo un uomo, una bandiera e un messaggio chiaro: la Romania non è una colonia. Il popolo ha diritto di scegliere chi lo guida. E nessun ambasciatore, nessun funzionario europeo, nessuna redazione pagata da Soros può impedirglielo.

Ma George Simion non si è limitato a denunciare, ha parlato con la gente, ha ascoltato storie, ha stretto mani consumate dal lavoro, ha abbracciato madri, padri, anziani e giovani. Lo abbiamo visto farlo ogni giorno, nei mercati popolari, nei villaggi dimenticati, nelle periferie dove lo Stato non arriva mai ma dove le televisioni arrivano sempre a dire chi è “pericoloso”, chi è “fascista”, chi non si deve votare. Eppure, nonostante il martellamento sistematico, nonostante le etichette infamanti, George Simion ha acceso qualcosa che non si spegne facilmente: la speranza.

La sua campagna elettorale è stata l’atto politico più sincero che l’Europa abbia visto negli ultimi anni. Non aveva nulla da promettere se non verità, dignità e sovranità. Ha parlato una lingua che i popoli capiscono: la lingua del coraggio. Ha difeso valori che l’establishment considera obsoleti: la patria, la famiglia, la fede. E lo ha fatto senza paura, senza compromessi, senza scendere a patti con il sistema.

Ma il sistema ha reagito come fa sempre quando si sente minacciato. Ha eretto barriere, ha oscurato contenuti, ha tentato di manipolare l’opinione pubblica. Ha attivato la macchina della censura come mai prima d’ora. Basti pensare a ciò che è accaduto il giorno stesso del voto: la Francia ha chiesto ufficialmente a Pavel Durov, il fondatore di Telegram, di censurare i contenuti pro-Simion. Una richiesta degna di un regime. Una richiesta subito rispedita al mittente perché «la democrazia non si difende distruggendola, ma comportandosi da democratici.»

Eppure, anche davanti a tutto questo, George Simion ha continuato a combattere. Ha denunciato le liste gonfiate con i nomi dei morti. Ha parlato delle minacce agli anziani nelle RSA. Ha documentato l’ostruzionismo sistematico contro il voto della diaspora, milioni di romeni all’estero costretti a code impossibili, senza schede sufficienti, privati di un diritto fondamentale. E noi eravamo lì. Abbiamo visto tutto questo. Abbiamo parlato con i suoi volontari. Abbiamo ascoltato il dolore dignitoso della gente.

Ecco allora che, come già accaduto in Francia e in Spagna, anche in Romania tutte le forze pro-establishment si sono coalizzate. Non per offrire un’alternativa, non per proporre una visione di futuro, non per difendere un progetto. Ma semplicemente per impedire che “i fascisti” vincessero. È sempre la stessa storia, sempre lo stesso schema. Agitare lo spauracchio dell’estremismo per squalificare l’avversario, etichettarlo, marginalizzarlo.

E diciamolo chiaramente: non possiamo sapere se queste elezioni siano state truccate. Non abbiamo elementi concreti per affermare che il risultato sia stato alterato o manipolato. Ma sappiamo una cosa, con certezza: ad essere stata manipolata è stata l’informazione. Con una campagna orchestrata scientificamente, martellante, capillare, finalizzata a delegittimare George Simion e i suoi elettori, trasformandoli da cittadini a sospetti. Il tutto con il silenzio complice dell’Unione Europea, che si è voltata dall’altra parte, come ha fatto sei mesi fa quando furono annullate – senza spiegazioni – elezioni regolari.

George Simion non è Donald Trump. Non ha la sua forza economica, non ha una struttura mediatica, non ha alle spalle un partito da decenni radicato. Ha 38 anni. È solo. E la Romania non è l’America. È un Paese con una democrazia fragile, troppo spesso schiacciata tra le pressioni esterne e gli apparati interni sopravvissuti al postcomunismo. Ricordiamoci che solo sei mesi fa, regolari elezioni sono state annullate senza che nessuno – né a Bruxelles né a Washington – battesse ciglio.

Eppure, nonostante i sospetti, nonostante la delusione, nonostante la rabbia, noi non possiamo permetterci di scendere al livello di chi vorrebbe cancellare il dissenso. Dobbiamo dirlo con chiarezza: è nostro dovere difendere la democrazia anche quando a vincere sono gli avversari dei nostri valori. Perché questo – più di qualsiasi altra cosa – segna la differenza tra noi e loro.

Loro censurano, reprimono, annullano, costruiscono nemici. Noi no. Noi crediamo ancora nella sovranità popolare. Noi rispettiamo il voto. Anche quando ci delude. Anche quando ci fa male. Perché se rinunciamo a questo, rinunciamo a tutto.
Noi de La Voce del Patriota continueremo a essere ovunque si lotti in difesa dei popoli e dell’Occidente. Continueremo a raccontare, a documentare, a difendere la libertà. Perché la battaglia che si combatte oggi in Romania è la stessa che si combatte in Italia, in Ungheria, negli Stati Uniti, ovunque ci sia un popolo che rifiuta di piegarsi all’establishment e alla dittatura del pensiero unico.

E se è vero che ogni generazione ha una sfida da affrontare, la nostra è questa: difendere la verità in un’epoca di menzogna. Difendere la libertà in un tempo di censura. Difendere il popolo in un mondo che ha dimenticato cosa significhi davvero la parola democrazia.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente di marketing digitale, docente alla IATH Academy, è autore di 9 libri. È stato inviato di Vanity Fair alle elezioni USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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