Nel Giorno del Ricordo, purtroppo, non ci sono soltanto, come dovrebbe essere stando alla legge istitutiva del 2004, iniziative, convegni e commemorazioni dedicate ai martiri delle foibe e agli esuli istriani, fiumani, giuliani e dalmati. Qualcuno, infatti, nel peggiore dei casi vandalizza targhe e monumenti, nel migliore (ed è un eufemismo), coglie l’occasione per minimizzare o negare la tragedia che ha colpito i nostri connazionali delle terre “di là dall’acqua”.
Per rispondere in modo adeguato e documentato alle affermazioni di questi ultimi Storia in Rete, che già nel 2020 aveva realizzato un numero speciale monografico “dedicato alle questioni della frontiera orientale d’Italia: le foibe, l’esodo giuliano-dalmata e le radici dei fatti storici che hanno condotto alla fine della comunità italiana in quelle terre adriatiche” con “dati, documenti, carte geografiche e testimonianze per aiutare a comprendere meglio e a ricordare”, ha pubblicato sul suo sito internet un ottimo vademecum in punti. L’approfondimento, spiegano i redattori, riguarda elementi “che una storiografia seria e attenta può stabilire con una ragionevole certezza su quelle vicende, mettendo da parte l’ideologia e soprattutto i metodi” di quanti riprendono “atti, fatti e dati storici allo scopo di creare una narrazione compiacente con le premesse ideologiche”.
Nell’articolo si prendono brevemente in esame, confutandole, le principali argomentazioni solitamente utilizzate da riduzionisti, negazionisti e giustificazionisti. Ne citiamo in questa sede alcune (per le altre, potete leggere il pezzo di Storia in Rete a questo link: Giorno del Ricordo: 10 punti per rispondere a negazionisti, giustificazionisti, ignorazionisti – Storia in Rete).
Innanzitutto viene ricordato che le foibe non sono state una reazione al fascismo, perché “l’operazione di sostituzione etnica degli italiani in Venezia Giulia e Dalmazia era iniziata già nella seconda metà dell’Ottocento, quando la dirigenza asburgica promette a croati e sloveni la testa degli italiani in cambio del loro abbandono degli ideali mazziniani-risorgimentali di indipendenza per tornare leali sudditi della Duplice. Se gli italiani non erano più domabili dal bastone tedesco, ci avrebbero pensato gli slavi a cacciarli via, demograficamente e attraverso la burocrazia imperiale”.
Poi c’è il discorso delle violenze: quelle commesse durante l’occupazione italiana non sono paragonabili a quelle commesse dai titini: “la differenza essenziale – si legge su Storia in Rete – è che le prime, per quanto deprecabili ed in certi casi perfino ascrivibili a crimini di guerra, avvennero in un contesto di guerriglia e guerra civile asimmetrica come rappresaglia immediata per atrocità subite dai nostri soldati e comunque su popolazioni per lo più in armi contro gli italiani”. Le atrocità commesse dai titini spesso e volentieri con la complicità dei comunisti italiani, invece, si scatenarono “su popolazioni inermi, che si erano arrese o erano comunque disarmate” ed erano “perpetrate per vendette etniche, personali e ideologiche” e “per decapitare la classe dirigente italiana e terrorizzare il resto della popolazione affinché si sottomettesse al nuovo regime comunista”.
Innegabile, infine, il fatto che nel dopoguerra venne perseguita una vera e propria amnesia di massa su quanto accaduto sul confine orientale italiano: la questione, infatti, venne praticamente cancellata dal dibattito pubblico. “L’argomento – sottolinea Storia in Rete – rimase relegato tema di destra e da neofascisti, e tale è rimasto oggi nella mentalità di tanti che continuano a considerare la memoria di esodo e foibe qualcosa di ideologico”. Non è così. E ribadirlo con argomentazioni fondate significa restituire al grande libro della storia d’Italia pagine troppo a lungo dimenticate e onorare il Ricordo e gli “italiani due volte”, ovvero per nascita e per scelta.