Gli arabo-americani vogliono Trump alla Casa Bianca. Sembra un paradosso ma non lo è

Da quando Kamala Harris è diventata la candidata ufficiale alla Casa Bianca per il Partito Democratico, un certo apparato mediatico mainstream di stampo liberal e progressista, americano e non, si è subito dato da fare per “vendere” al mondo l’immagine di una Vice destinata a vincere perché più giovane e dinamica del concorrente repubblicano Donald Trump e poi, perché i sondaggi le avrebbero sorriso fin dall’inizio. L’età è un aspetto che non sempre conta e proviamo solo a pensare a Ronald Reagan, uno dei più importanti e incisivi presidenti della Storia americana che fece grandi cose con non poche primavere sulle spalle. Certo, qualche istituto di ricerca ha dato e dà Harris un poco più avanti rispetto a Trump, ma si tratta di numeri risicati che anzitutto non consentono di spacciare per inevitabile una vittoria di Kamala Harris e possono essere ribaltati alla velocità della luce soprattutto nei cosiddetti Stati chiave dove regna la massima incertezza e nei quali la vittoria locale può determinare l’ingresso nello Studio Ovale. Hillary Clinton aveva nel 2016 un margine di vantaggio su Trump nei sondaggi molto più ampio di quello che viene previsto ora per Kamala, eppure, le cose andarono nella direzione opposta. L’informazione, in particolare una certa informazione, si basa superficialmente sulla media nazionale dei sondaggi, che attribuirebbe appunto un minimo vantaggio alla candidata dem, ma bisognerebbe porre l’attenzione anche sulle indagini specifiche, riguardanti singoli settori economico-sociali o le singole comunità che compongono gli Stati Uniti d’America. Da qui escono talvolta delle sorprese che possono mettere in dubbio il racconto mainstream. Per esempio, qualche giorno fa è uscito un dato interessante e degno di approfondimento relativo alle preferenze elettorali, in vista delle Presidenziali, della comunità arabo-americana e musulmana degli USA. Secondo Arab New / You Gov l’ex presidente è avanti di due punti rispetto alla candidata democratica tra gli elettori arabo-americani. Un altro sondaggio, dell’Arab American Institute, ha indicato un vantaggio di Donald Trump persino maggiore, di quattro punti, il 46 per cento contro il 42 di Kamala Harris. Il 39% contro il 33% degli arabo-americani ritiene il candidato repubblicano significativamente più capace dell’avversaria dem di mettere fine al conflitto in Medio Oriente. Queste rilevazioni sono un elemento di preoccupazione per lo staff democratico perché Kamala si ritrova ad avere 18 punti in meno di quelli che aveva Joe Biden nel 2020 fra gli elettori arabo-americani e ciò potrebbe essere decisivo per una vittoria di Trump. In particolare, in uno Stato chiave come il Michigan in cui si trova la più grande comunità araba d’America, oltre 200mila persone, e dove le ultime elezioni sono state vinte per una manciata di voti: 150mila da Biden nel 2020 e soli 11mila da Trump nel 2016. Pare che gli arabo-americani vogliano punire l’attuale Amministrazione Biden-Harris e impedire ovviamente alla corrente Vicepresidente di salire di grado per il sostegno dato ad Israele nella guerra a Gaza e in Libano, pur sapendo che Donald Trump sia mille volte più vicino allo Stato ebraico e al Governo di Benjamin Netanyahu del duo democratico. Il sorpasso del tycoon fra gli arabo-americani può sembrare quindi paradossale, ma cerchiamo di spiegare come si tratti invece di una cosa seria e concreta. Il presidente Biden e la sua Vice Kamala Harris hanno sì sostenuto di fatto la reazione militare israeliana dopo i sanguinosi attacchi di Hamas del 7 ottobre del 2023, ma non sono mancati rimproveri e distinguo rivolti al premier Netanyahu. Harris è l’erede politica di Barack Obama, il quale, alla pari o peggio di Jimmy Carter, è stato uno dei presidenti della Storia USA più lontani, politicamente ed anche umanamente, dallo Stato d’Israele. Fra Obama e Bibi Netanyahu scorreva un’antipatia personale reciproca, difficile da nascondere persino dietro ai rapporti istituzionali e diplomatici di facciata, che tendono ad insabbiare con qualche dose di ipocrisia le incomprensioni umane. Dall’altra barricata, Donald Trump è stato il presidente del “muslim ban”, ovvero, del divieto di ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di alcuni Paesi arabi e musulmani. Altresì, egli è stato il leader americano del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e durante il suo primo mandato presidenziale è stato eliminato il potente generale iraniano Qasem Soleimani, nemico sanguinario e giurato dello Stato ebraico, oltre che di tutto l’Occidente. Ma i primi quattro anni di Trump alla Casa Bianca verranno ricordati anche per la storica, inedita e tanto attesa distensione fra Israele e almeno una parte del mondo arabo, le monarchie sunnite del Golfo Persico. Gli Accordi di Abramo, spinti dall’Amministrazione Trump, hanno sancito un avvicinamento epocale di Israele a Paesi come gli Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan, con la tacita approvazione dell’Arabia Saudita. Tutto questo non è andato giù a quei regimi musulmani in gran parte sciiti, come quello iraniano degli Ayatollah, che puntano alla distruzione completa della “entità sionista” israeliana e allo scontro di civiltà con l’Occidente. Hamas, non dimentichiamolo, ha deciso di perpetrare, con l’aiuto finanziario e militare dell’Iran, gli attacchi del 7 ottobre proprio per sabotare i risultati degli Accordi di Abramo. Ma gli arabo-americani vedono in Donald Trump un leader pragmatico che è stato capace anzitutto di riunire allo stesso tavolo Benjamin Netanyahu e i sovrani del Golfo Persico, e potrà essere in grado, se eletto presidente, di dare una soluzione alla guerra in corso e alle tante conflittualità antiche che sferzano da sempre il Medio Oriente. Gli arabi d’America credono, come si ritiene pure in altre latitudini, che l’evidente approccio di Trump, pratico e quasi manageriale-imprenditoriale, sia più efficace per la gestione delle crisi e dei fronti caldi del mondo rispetto ai metodi internazionali dei democratici e della galassia liberal americana. Nel caso di una vittoria di Trump, è possibile che anche il conflitto in Ucraina trovi una via d’uscita onorevole per tutti e in particolare per gli aggrediti di Kiev, i quali non possono senz’altro chiudere la guerra con una resa. Il realismo trumpiano potrà aiutare a contenere gli uni e gli altri senza che nessuno perda definitivamente la faccia. L’idea di un Donald Trump quale agente, diciamo così, di Vladimir Putin corrisponde soltanto ad una forzatura mediatica della stampa radical-chic mondiale. L’ex presidente è mosso, se ne sono accorti anche gli arabo-americani, da un radicato senso della realtà che non fa dimenticare, ci mancherebbe altro, la presenza dei nemici dell’America e dell’Occidente, fra i quali compare anche la Russia di Putin, ma impone di impedire che le guerre si trasformino in eventi striscianti ed infiniti con inutili perdite di vite umane e danni irreparabili all’economia del pianeta. 

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Roberto Penna
Roberto Penna
Roberto Penna nasce a Bra, Cn, il 13 gennaio 1975. Vive e lavora tuttora in Piemonte. Per passione ama analizzare i fatti di politica nazionale e internazionale da un punto di vista conservatore.

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