Harvard: simbolo della propaganda woke pagata dai contribuenti

Ci sono momenti in cui le parole non sono semplici dichiarazioni: diventano atti politici, colpi di verità che aprono fratture nel sistema. Parole che cambiano i rapporti di forza, che rimettono le cose al loro posto. La lettera firmata il 5 maggio 2025 dal Segretario dell’Istruzione Linda E. McMahon è esattamente questo: non un documento burocratico, ma una linea di confine. 

Dopo decenni di privilegi ideologici e impunità culturale, il Governo Federale ha deciso di tagliare ogni finanziamento pubblico ad Harvard, accusando l’università di violazioni sistematiche, gestione fallimentare e tradimento dei principi fondanti dell’educazione americana.

Non si tratta di una scelta ideologica. È un atto di giustizia. Perché Harvard, da tempo, ha smesso di essere un faro di eccellenza. È diventata il simbolo della degenerazione di un’élite che ha sostituito il merito con l’appartenenza ideologica, la competenza con l’attivismo, la cultura con la propaganda. La lettera, indirizzata al presidente Alan Garber, è chiara fin dalle prime righe: «ricevere questi fondi è un privilegio, non un diritto». Semplice. Inattaccabile. 

Harvard, con un fondo esentasse da 53,2 miliardi di dollari – più del PIL di decine di Stati sovrani – riceve comunque miliardi dai contribuenti americani, e invece di investire nella formazione degli studenti, li utilizza per gonfiare la propria burocrazia e alimentare un clima di odio e disprezzo verso la Nazione che la finanzia.

McMahon inchioda l’università su ogni fronte. Dalla selezione degli studenti – molti dei quali protagonisti di comportamenti violenti e antisistemici – all’eliminazione dei test standardizzati, fino alla necessità di dover insegnare matematica di base alle matricole. Una domanda, tanto feroce quanto giusta, campeggia nella lettera: «perché Harvard, se è davvero così selettiva, deve insegnare matematica di base?». La risposta è fin troppo ovvia: perché oggi entra ad Harvard non chi lo merita, ma chi rientra nei parametri ideologici fissati dall’amministrazione accademica. Parametri che nulla hanno a che fare con l’eccellenza.

E ancora: gli scandali di plagio che hanno travolto l’ex presidente Claudine Gay, le nomine a cattedra di sindaci fallimentari come Bill De Blasio e Lori Lightfoot, chiamati a tenere corsi di leadership. McMahon commenta con una lucidità brutale: «è come mettere il capitano del Titanic a insegnare navigazione ai futuri comandanti di navi». Ma non si tratta di ironia. È un atto d’accusa. Perché ciò che emerge dalla lettera non è una serie di errori, ma un intero sistema profondamente corrotto, autoreferenziale, politicamente orientato. Un sistema che ha smarrito ogni legittimità.

Ed è qui che il nome di Bill Ackman assume un ruolo chiave. Ex studente di Harvard, imprenditore di successo, Ackman è stato per anni sostenitore e finanziatore dell’università. Ma anche uno dei primi ad alzare la voce contro la sua deriva ideologica. È stato lui a definire Harvard «una macchina di propaganda di partito». È stato lui a denunciare la gestione disastrosa del fondo, ritenuto gonfiato, e a rivelare che l’università ha contratto debiti per 8 miliardi di dollari. 

McMahon riprende queste accuse nella lettera e ne fa un punto centrale: se anche solo una parte di ciò è vero, Harvard non può più ricevere nemmeno un centesimo di soldi pubblici. E poi c’è il nodo più profondo: il rifiuto di rispettare la sentenza della Corte Suprema che ha dichiarato illegittime le discriminazioni razziali nei processi di ammissione. 

Harvard non solo ha ignorato quella decisione, ma ha proseguito nella promozione di un razzismo sistemico travestito da inclusione. McMahon è netta: «le università dovrebbero premiare il merito e celebrare l’eccellenza, non incoraggiare l’odio, il risentimento e il razzismo contro i nostri giovani americani».

Di fronte a tutto questo, la reazione dei media mainstream è stata esattamente quella che ci si poteva aspettare: piagnistei, accuse di “attacco politico”, allarmi sulla “libertà accademica” minacciata. 

Nessuno, ovviamente, ha avuto il coraggio di entrare nel merito delle accuse. Nessuno ha risposto sulle selezioni manipolate, sugli standard ridicoli, sulla gestione opaca. Tutti, invece, si sono indignati per le correzioni grammaticali che Harvard ha fatto alla lettera del governo. Correzioni in rosso. Come se fosse un tema da restituire ad uno studente, e non un atto ufficiale di rottura con un sistema marcio.

Questa lettera non è solo la fine di un finanziamento. È l’inizio di una resa dei conti. Un segnale forte a tutte le istituzioni che pensano di poter vivere in eterno nel comfort dell’intoccabilità. Il messaggio è chiaro: vuoi fare attivismo? Pagatelo tu. Vuoi disprezzare l’America? Fallo pure, ma senza chiedere i soldi degli americani.

Harvard potrà continuare ad esistere. Ma dovrà farlo con i suoi soldi, non con quelli pubblici. Dovrà finalmente scegliere se essere un’università o una piattaforma ideologica. La verità è che questa decisione, oggi, segna un punto di svolta. E dimostra che sì, a volte, le parole cambiano davvero il mondo.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente di marketing digitale, docente alla IATH Academy, è autore di 9 libri. È stato inviato di Vanity Fair alle elezioni USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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