Dopo l’omicidio di Charlie Kirk, avvenuto il 10 settembre 2025, una delle domande che sarebbero dovute sorgere spontanee, parafrasando una celebre battuta dei Promessi Sposi, è: “chi era costui?”. Sembra una banalità, ma sui media tradizionali e sui social network si sono letti migliaia di interventi che sembrano riferirsi a persone diverse, accomunate solo dall’appartenenza della vittima all’ala conservatrice americana e dal barbaro assassinio durante un evento pubblico all’Utah Valley University. Com’è possibile una cosa simile?
In Italia, fino al giorno dell’attentato, Charlie Kirk era poco conosciuto, nonostante il suo iconico “prove me wrong” fosse diventato un meme celebre su varie pagine web. La notizia della sua morte ha spinto migliaia di utenti a cercare informazioni online, dove abbondano video dei suoi incontri e commenti, soprattutto di oppositori e non è un mistero che l’etichetta di “right wing” sia oggi vista da molti, in particolare dagli avversari politici, come sinonimo di estremismo, intolleranza o persino “fascismo”. Da qui, il passo è breve per cercare i punti più criticabili dei suoi interventi. Si sono letti ovunque estratti dei suoi discorsi, come l’affermazione che qualche vittima da arma da fuoco sia un costo sociale accettabile per mantenere il Secondo Emendamento, o la sua opposizione al Civil Rights Act.
Ma è vero?
Certo, Charlie Kirk ha espresso questi concetti, ma tali affermazioni sono state completamente decontestualizzate.
La prima rientrava in un discorso più ampio: il Secondo Emendamento va oltre il diritto alla legittima difesa e nasce dalla necessità di tutelare la libertà contro un governo tirannico. Il diritto a possedere armi deriva dalla Rivoluzione Americana, come baluardo per proteggere i cittadini da derive autoritarie, colpi di stato o invasioni straniere. In questo contesto, le “poche” vittime da armi da fuoco – in termini relativi, non assoluti – sono considerate un tragico prezzo per preservare la libertà e la democrazia. La seconda affermazione, invece, era una critica all’affirmative action, ossia la discriminazione positiva, che introduce quote etniche o di altro tipo per lavoro o università, violando, secondo una certa lettura, il principio di uguaglianza del Quattordicesimo Emendamento.
Questi sono esempi pratici di cherry picking, ovvero l’uso di frasi decontestualizzate per costruire una narrazione a sostegno di una tesi precostituita volta a sminuire, in questo caso, la gravità dell’attentato di cui è stato vittima Kirk. Questa pratica, diffusa trasversalmente tra forze politiche e media, consiste nel selezionare solo le citazioni utili, ignorando le controargomentazioni. Con il cherry picking, si può creare un alone di credibilità attorno a qualsiasi affermazione: estrapolando una frase dal contesto si può persino far dire alla Bibbia che “Dio non esiste” (affermazione che si può testualmente estrarre da Salmi 52:2). È il metodo ideale, ad esempio, per dipingere un ritratto fazioso di un avversario politico o per sostenere tesi pseudoscientifiche in modo apparentemente credibile.
Alla base di questa strategia c’è un meccanismo psicologico fondamentale, noto come bias di conferma, ovvero la tendenza naturale delle persone a cercare, interpretare e ricordare informazioni che confermano le loro convinzioni, trascurando o svalutando tutto ciò che le contraddice. Questo bias non è sempre intenzionale: il cervello umano, bombardato da una quantità enorme di informazioni, usa scorciatoie mentali per semplificare la realtà. Processare dati contraddittori richiede uno sforzo cognitivo maggiore, perché implica mettere in discussione le proprie certezze, un processo che può generare disagio o insicurezza e, per questo, si tende a scegliere le “ciliegie” che confermino ciò che già si crede, scartando quelle che potrebbero destabilizzare la propria visione del mondo.
Nel caso di Kirk, chi lo considerava un estremista ha probabilmente cercato solo le sue affermazioni più controverse, ignorandone il contesto, rafforzando così la propria convinzione e costruendo un’immagine distorta per persuadere chi già condivide quel punto di vista.
Il bias di conferma è particolarmente potente perché risponde a tre esigenze della mente umana. Prima di tutto, consente un’efficienza cognitiva: filtrare le informazioni attraverso schemi preesistenti permette di risparmiare tempo ed energia. In secondo luogo, si nutre del rinforzo sociale: le persone tendono a circondarsi di individui o fonti che condividono le loro idee, creando bolle in cui il cherry picking diventa quasi inevitabile, poiché le informazioni circolanti sono già prefiltrate. Infine, c’è una motivazione emotiva: le credenze sono spesso legate a valori o identità, e metterle in discussione può generare disagio. Trovare prove che dipingano Kirk come estremista, ad esempio, può soddisfare emotivamente chi si oppone alle sue idee, rafforzando la propria identità politica.
Il cherry picking sfrutta questo bias per costruire narrazioni convincenti, specialmente in contesti polarizzati. Chi lo utilizza sa che il pubblico è più propenso ad accettare informazioni che confermano le proprie opinioni, senza approfondire il contesto. La strategia si sviluppa selezionando dati che supportano la tesi desiderata, decontestualizzandoli per renderli più facilmente interpretabili e amplificandoli attraverso media e social, dove la viralità favorisce la diffusione di narrazioni distorte. Questo processo ha conseguenze profonde: rafforza la polarizzazione, offusca la realtà con ritratti parziali e permette di manipolare l’opinione pubblica verso obiettivi specifici, come demonizzare un avversario o sostenere una causa. Anche l’uso disinvolto dei sondaggi rientra in questa pratica: molti si limitano a osservare percentuali e grafici, senza chiedersi quale sia la metodologia, l’ampiezza del campione o la formulazione delle domande, dati essenziali per valutare la verosimiglianza dei risultati.
Superare il bias di conferma e individuare un’opera di cherry picking richiede uno sforzo di volontà considerevole: cercare attivamente opinioni opposte alle proprie, verificare le fonti originali e mettere in discussione le proprie convinzioni sono passi fondamentali, anche se scomodi, e sviluppare un pensiero critico, valutando la qualità delle fonti e la coerenza delle argomentazioni, è altrettanto importante. L’approccio corretto a ogni notizia, ritratto o tesi è, quindi, la diffidenza: verificare i dati, contestualizzare la narrazione e approfondire richiede tempo, una risorsa preziosa che, tuttavia, è un investimento necessario per non cadere in inganno o sostenere cause che, in realtà, potrebbero essere vantaggiose soprattutto per chi fornisca dati distorti. Solo così si può resistere alla manipolazione e costruire un’opinione informata e autonoma.