Il cinema è cultura. Ma lo Stato non è un bancomat creativo

Quando si chiedono più soldi pubblici per il cinema, ci si dovrebbe interrogare sul sistema che finanzia opere spesso bocciate dal pubblico, dimenticando il valore della qualità e della libera concorrenza

C’è chi alza la voce chiedendo che lo Stato continui – anzi aumenti – a finanziare il cinema, come se il pubblico non contasse nulla, come se scegliere quale biglietto acquistare fosse un dettaglio. Si parla di cultura, certo. Ma chi decide cos’è cultura? E soprattutto: perché proprio il cinema e non altri settori altrettanto o più meritevoli, dovrebbe godere di una corsia preferenziale nei finanziamenti pubblici?

È quantomeno curioso (se non discutibile) che proprio chi è da sempre ideologicamente ostile a ogni forma di assistenzialismo e di intervento statale nell’economia, pretenda milioni dallo Stato per sostenere produzioni che, spesso, non trovano il consenso del pubblico. Film realizzati con 3, 5, 7 milioni di euro di fondi pubblici che, una volta usciti nelle sale, incassano a malapena il 10% di quanto ricevuto. Alcuni arrivano persino a contare meno di 500 spettatori totali. Dove sarebbe l’interesse generale in tutto questo? E di che cultura parliamo?!?

E se la tanto decantata crisi del cinema italiano non fosse un problema di soldi ma di qualità? Se fossero proprio i finanziamenti a pioggia a “drogare” il mercato, alterandone la qualità e premiando le relazioni (e le appartenenze) anziché il talento e il merito? È forse un peccato pensare che il settore cinematografico debba confrontarsi, come altri, con la logica della libera concorrenza? Se un film piace, incassa. Se non piace, non incassa. È la regola in ogni attività economica che diventa intollerabile, però, quando si parla di film.

Nel frattempo c’è chi firma manifesti contro le scelte del Governo solo perché ha osato rivedere i criteri di distribuzione delle risorse. Ma è autoritario difendere l’interesse collettivo e chiedere trasparenza, oppure è più liberticida pretendere soldi pubblici senza voler rispondere alle logiche di mercato?

Nel settore editoriale, ad esempio, solo pochi ricevono aiuti, mentre la maggioranza si misura ogni giorno con il mercato. Perché il cinema dovrebbe essere l’eccezione? Se una casa di produzione è un’impresa, non dovrebbe assumersi il rischio d’impresa come ogni altra attività economica? Nessuno finanzia ristoranti in perdita solo perché cucinano “con passione” ricette della tradizione.

Il punto non è smettere di sostenere la cultura. Il punto è capire quale cultura e a quali condizioni. Finché lo Stato sarà il salvadanaio di pochi, la qualità sarà sempre la prima vittima. E continueremo a vedere opere noiose, poco apprezzate dal pubblico e autoreferenziali. E ad andare al cinema solo perché qualcuno ha deciso che era “cultura”. A carico vostro!

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Antonio Cacace
Antonio Cacacehttp://www.antoniocacace.com
Giornalista pubblicista, laurea in scienze economia e master in comunicazione. E' stato un tennista mancato, un quasi campione di karate e una promessa (non mantenuta) del calcio quando giocava nelle strade del suo quartiere. Ama la montagna, il trekking e non sopporta il politicamente corretto. http://www.antoniocacace.com

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