Il crollo delle democrazie: ora comandano i social media.

A dare il via – a margine dei fatti di Capitol Hill – è stato quest’annuncio. «Gli scioccanti eventi delle ultime 24 ore mostrano chiaramente che il presidente Trump intende usare il resto della sua permanenza in carica minando una pacifica e legale transizione di potere al suo successore, Joe Biden». E quindi si è pensato bene di procedere con la censura, anzi addirittura con l’“impeachment” di fatto stabilito da chi? Da Mark Zuckerberg. Magistrato? Senatore? Delegato da qualcuno? No, anzi sì: amministratore delegato di Facebook, colosso di cui è inventore e proprietario e per mezzo del quale ha sospeso «a tempo indeterminato» il presidente in carica degli Stati Uniti.

Una decisione arcinota ma non altrettanto clamorosa. Nel senso che in queste giorni non è stata sufficientemente dibattuta dalla cosiddetta stampa ufficiale per quello che è: la sostituzione di una fantomatica corte di giustizia “digitale” al principio di legalità, alla costituzione americana e ai suoi emendamenti, al ruolo della politica. E alla realtà stessa. Poco importa – infatti – il fatto che qualche ora dopo Donald Trump abbia riconosciuto e assicurato la transizione del mandato da lui a Jo Biden: la decisione del magnate dei Big Tech non è mutata.

E così una “Corte” composta da unico pm-giudice-proprietario può stabilire – motu proprio – di tappare la bocca a una delle cariche elettive più importanti del mondo sul mezzo di comunicazione più popolare e seguito del pianeta. La decisione di Facebook, ovviamente, ha creato volontà di narcisistica emulazione. Qualche ora fa Twitter, l’altro social (il più amato da Trump), non è stato da meno. Dopo aver marchiato per mesi i post di Trump con una sorta di parental advisory sui contenuti espressi, ieri notte si è accodato al percorso del suo competitor: «Dopo aver rivisto i recenti tweet di Donald Trump, abbiamo deciso di sospendere permanentemente l’account per il rischio di ulteriore incitamento alla violenza».
Tutto questo dietro il paravento di nebulosi principi interni – la fantomatica policy di cui è provvisto il social –, utilizzati a senso unico: nel momento in cui, a fronte delle dichiarazioni più o meno condivisibili di Trump, il medesimo trattamento atto a colpire il linguaggio d’odio, le fake news o i messaggi fuorvianti non si ripete con lo stesso zelo per nessun altro. Nemmeno, solo per fare qualche esempio, con chi vanta la repressione cinese dei dissidenti di Hong Kong o con i tanti gruppi di radicalizzati islamici che scorrazzano tranquillamente sulle pagine dei social.

La tentazione censoria e dirigista non si limita ovviamente ai social network: abbiamo tutti visto i conduttori dei network televisivi americani chiudere, in maniera deontologicamente allucinante, i microfoni durante alcuni interventi di Trump nel momento dello spoglio elettorale. Ma la novità dello stop alle comunicazioni di un presidente eletto dal popolo sulle piattaforme digitali – che, a differenza della stampa, non devono rispondere nemmeno ad alcuna logica editoriale né, per legge, ad alcun controllo sui contenuti (a meno che non consista nell’incitazione o nell’apologia di un reato) – è una scelta consapevolmente orwelliana.

E questo non lo pensa solo il fronte non conformista ma lo ha denunciato una delle poche menti lucide e franche della cultura progressista italiana, Massimo Cacciari: «Che sia l’imprenditore, il padrone di queste reti», a rimuovere i contenuti di Trump, «è una cosa semplicemente pazzesca. È uno dei sintomi più inauditi del crollo delle nostre democrazie. Non c’è dubbio alcuno. Perché come oggi è Trump, domani potrebbe essere chiunque altro, e lo decide Zuckerberg. È una cosa semplicemente pazzesca». A fronte dell’onestà intellettuale di un Cacciari, ad esplicitare ciò che pensa il grosso degli intellò progressisti (la voce interiore della sinistra di governo) è stato Gad Lerner: «Rimuovere Trump dai social? Dovevano farlo prima. Si sarebbe evitata la convocazione di un esercito sedizioso, profondamente plasmato dalle menzogne diffuse da Trump». E ovviamente il giornalista della rive gauche si augura un tale trattamento dalle nostre parti: «Se lo facessero anche in Italia con alcuni non sarebbe male…». Non è difficile indovinare nei confronti di chi: dei partiti e dei leader del destra-centro.

Del resto ciò sarebbe solo l’ultimo degli escamotage per depennare politicamente gli avversari. Non solo i giochi di palazzo e i ribaltoni della volontà popolare, dunque. Non solo l’azione sostituiva delle corti di giustizia, o meglio l’azione “militante” dei singoli magistrati. Adesso anche la “cavalleria” dei magnati dei Big Tech. Qualsiasi cosa insomma, al fine di piegare il sistema liberale ad usum della lotta politica totalizzante contro il “nemico”. È questo l’ultimo stadio di una sinistra solo sulla carta post-comunista ma nei fatti decisamente e felicemente “post-liberale”.

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