Washington D.C., 27 maggio 2025, ore 3:47 AM.
Nel cuore di Georgetown, sotto il ronzio di un neon mezzo rotto, il barista del Tony’s Diner versa l’ennesimo caffè nero mentre la TV trasmette un loop di Truth Social.
Donald J. Trump, sveglio come un gufo nel suo studio alla Casa Bianca – ma con la mente a Mar-a-Lago – twitta:
“Putin gioca col fuoco. Se non fosse per me, la Russia sarebbe già un parcheggio a pagamento per droni NATO.”
Lo stesso Trump che, ai tempi del primo mandato, chiamava Putin “uno tosto”, ora lo dipinge come “completamente impazzito”. È il Donald Show: un mix di cowboy, showman e zio che racconta storie a tavola al Thanksgiving italo-americano, col piatto di polpette della nonna davanti.
A Kyiv, Volodymyr Zelensky si presenta sul palco senza divise nuove, sempre con lo stesso tono. Davanti a una folla di reporter nella Piazza Maidan, butta lì una frase che è puro Shakespeare con accento slavo:
“Putin irrita la Casa Bianca più di quanto lo faccia io.”
Risate nervose. Qualcuno sussurra: “Sta annunciando un summit o un nuovo drone hypersonic?” Forse entrambi.
Zelensky vuole un tavolo – ovale, quadrato, anche un tavolino da bar – purché ci siano lui, Trump e Putin. E magari un traduttore che tenga il passo. Ma la platea ride come se non sapesse se applaudire o cercare riparo nei bunker.
Mosca, nel frattempo, tace. O meglio, parla Lavrov, il maestro del “sì, ma”.
Siamo pronti a trattare – dice, sorseggiando tè in una dacia fuori città – ma l’Ucraina deve tornare a parlare russo. E la Crimea? Non è negoziabile.
Traduzione: Putin vuole la pace, ma solo se può scriverne il copione, in cirillico e senza note a piè di pagina.
Intanto, i report parlano di 50.000 truppe russe ammassate vicino a Sumy, pronte per una “primavera” che sa più di inverno nucleare.
A Washington, la Casa Bianca è un alveare in fibrillazione. Non solo per i droni iraniani che ronzano su Kharkiv, ma perché – sotto sotto – sanno che ci sono bambini ucraini che questo Natale non lo vedranno.
È la narrazione che li spaventa. Trump non è più il mediatore zen che accarezzava l’orso russo mentre twittava “PACE!”. Ora è il cowboy con la pistola carica, pronto a far ballare Putin al ritmo di sanzioni, embarghi sul petrolio e forse un accordo sull’uranio che farebbe impallidire Wall Street.
E poi c’è l’Italia, il mio vecchio paese, che osserva la scena globale con il passo cauto di chi sa che ogni parola pesa.
Il governo italiano, nelle ultime dichiarazioni ufficiali, ha ribadito l’impegno per la pace in Ucraina, ma senza cedere sui principi di libertà e sovranità nazionale.
Un messaggio chiaro, che risuona a Roma come un applauso trattenuto: sobrio, istituzionale, ma dal retrogusto forte.
Come un espresso ben fatto.
Da San Pietro, Leone XIV benedice il mondo, invoca il Rosario e prega per i bambini di Kyiv. Ma il mondo, si sa, preferisce i droni ai rosari.
Eppure, il vero gioco si fa a Little Italy, New York, dove gli italo-americani si riuniscono al Sal’s Pizzeria per guardare la CNN e commentare:
“Trump lo sistema, Putin,” dice Tony, 65 anni, mentre addenta una slice di margherita.
“Ma Zelensky? Quello è un attore, non un politico.”
Risate, un brindisi con birra Peroni, e via a discutere di pace come se fosse una partita dei Knicks.
Il summit della verità si avvicina: Trump, Putin, Zelensky.
Tre attori su un palcoscenico globale, con zero copioni concordati. L’Europa trattiene il fiato, l’Ucraina conta le munizioni, e Wall Street scommette sul prezzo del gas.
La guerra, in fondo, è una narrazione.
Zelensky la recita, Putin la manipola, Trump la twitta in diretta.
Verità o post-verità? La Storia lo deciderà.
O forse no.
Intanto, io ordino un’altra fetta, mastico piano, e aspetto il prossimo tweet.
Forse sarà quello giusto. Forse no.