Il governo che lavora: occupazione, PIL, stabilità

In Italia c’è un vizio radicato, una forma di masochismo collettivo: aspettarsi sempre il peggio da chi ci governa, come se la mediocrità fosse scritta nel nostro DNA. È un riflesso pavloviano, figlio di decenni di governi appesi a un filo, senza visione, ostaggi dei compromessi e figli di giochi di palazzo, maggioranze raffazzonate e agende dettate da Bruxelles o da chissà chi altro.

Quando, due anni e mezzo fa, il Governo Meloni si è insediato le solite cassandre scommettevano (o speravano) che sarebbe crollato in pochi mesi. Troppo complesso il mondo, troppo ostili le élite, troppo affilata la macchina del fango pronta a trasformare ogni mossa in un caso nazionale. E invece, a due anni e mezzo di distanza, l’Italia si ritrova con un governo che governa, agli antipodi del “tirare a campare” a cui eravamo tristemente abituati. 

La cosa più clamorosa è che non c’è stato bisogno di fuochi d’artificio o proclami da campagna elettorale o “percezioni” per i sognatori da salotto, ma numeri e fatti che parlano da soli.

Prendiamo l’occupazione: un milione e novantacinquemila nuovi posti di lavoro in diciotto mesi, secondo i dati ISTAT aggiornati a marzo 2025. Il tasso di occupazione ha superato il 63%, la disoccupazione giovanile è scesa sotto il 17%, i contratti stabili sono tornati centrali nel mercato del lavoro. Altro che precarietà come destino ineluttabile: per chi ha sempre vissuto di lavoretti, questa è una rivoluzione. 

Non è un miracolo calato dall’alto, è il frutto di una strategia chiara: taglio del cuneo fiscale, più soldi in busta paga e meno peso sulle imprese; incentivi mirati, come il bonus assunzioni per le PMI; riforma del lavoro autonomo che ha sbloccato investimenti nelle partite IVA e dato certezze ai professionisti. 

Nessuna rivoluzione di facciata: solo misure concrete, coerenti e realizzabili. Quando un governo non si contraddice, quando i ministri non si pestano i piedi, le imprese tornano a crederci. E chi cerca lavoro smette di sentirsi un numero.

L’economia nel suo complesso conferma il cambio di passo: il PIL ha superato i livelli pre-crisi del 2008, trainato da industria, export, turismo e agrifood. L’Italia non cresce “nonostante” le sue scelte, ma grazie a una strategia che ha rimesso in moto la macchina produttiva.

E poi c’è il Ponte sullo Stretto. Un progetto fermo da decenni, sabotato da ideologia, interessi e ignavia politica. Il Governo Meloni l’ha sbloccato: ha ricostituito la società Stretto di Messina Spa, aggiornato il progetto esecutivo e messo nero su bianco un obiettivo concreto — avviare i lavori entro il 2025. 

Per la prima volta, non se ne parla come di un’utopia elettorale, ma come di un’infrastruttura strategica per collegare davvero Nord e Sud, Sicilia e Continente. E la sinistra, che per anni ha usato il Ponte come pretesto polemico, oggi non ha più argomenti. Non sa cosa dire. Perché il cantiere partirà davvero.

Nel frattempo, come ci ha spiegato il Sottosegretario Butti, la trasformazione digitale dell’Italia – rimasta al palo per anni – è entrata finalmente in una fase concreta. Il governo ha sbloccato oltre 10 miliardi di euro del PNRR su progetti reali. Oltre 17.000 enti pubblici coinvolti, 70.000 progetti di digitalizzazione avviati, più della metà già realizzati. È cambiato tutto: accesso ai servizi digitali con CIE e IT Wallet, interoperabilità tra enti pubblici, piattaforma dati, cloud nazionale, digitalizzazione della sanità. 

Non è solo tecnologia: è una visione culturale. È l’idea che l’Italia possa essere moderna senza rinunciare alla sua identità. In tutto questo, la stabilità è la chiave. Dopo anni in cui gli esecutivi cadevano come birilli, il governo Meloni è diventato un punto fermo. Nessuno si chiede se domani ci sarà una crisi. Nessuno dubita della rotta. E questa solidità, tanto politica quanto istituzionale, è diventata una leva decisiva: nei negoziati europei, nei mercati finanziari, nell’attuazione del PNRR, nella fiducia delle imprese.

Intanto, la sinistra sminuisce tutto. Non perché abbia contro-argomenti, ma perché non ne ha proprio. Ripete che l’Italia è più povera, più isolata, più insicura. Ma i cittadini vedono altro. Vedono tasse più basse, infrastrutture che ripartono, riforme che finalmente avanzano. Lo stesso flop clamoroso del referendum promosso dalla sinistra lo dimostra: nemmeno il loro elettorato crede più alla narrazione catastrofista. 

Vedono un’Italia che non solo regge, ma avanza.  Il vecchio ritornello “la destra è inadatta a governare” è stato sepolto dal Governo Meloni, che ha dimostrato che si può guidare una Nazione senza chiedere scusa a nessuno.

Il futuro? È già cominciato. Con l’energia del merito, l’orgoglio dell’identità, la forza del lavoro. Non ci fermeremo, perché il governo di Giorgia è il governo che lavora. E l’Italia, oggi, lo vede, lo vive e, soprattutto, non ha più voglia di tornare indietro. Avanti tutta.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente di marketing digitale, docente alla IATH Academy, è autore di 9 libri. È stato inviato di Vanity Fair alle elezioni USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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