Da sempre, il peso delle parole dipende da chi le pronuncia. È la legge più antica della politica e della comunicazione: le stesse frasi, dette da un leader autorevole o da un millantatore, producono effetti opposti. Le prime restano, le seconde svaniscono come fumo al vento.
È una verità che la saggezza popolare ha consegnato alle favole. Pensiamo al pastorello che gridava «al lupo!» per gioco: lo fece talmente tante volte che, quando il lupo arrivò davvero, nessuno accorse più. Chi abusa della menzogna, perde per sempre la fiducia degli altri.
Una lezione che Elly Schlein sembra non aver mai appreso.
Dal palco del Congresso del Partito Socialista Europeo ad Amsterdam, la segretaria del PD ha denunciato un’Italia «in bilico sul baratro», dove «la libertà e la democrazia sono a rischio». Parole pronunciate davanti a un pubblico straniero, come se denigrare la propria Nazione potesse restituirle credibilità. È il gesto tipico di chi non riesce più a parlare agli italiani e cerca applausi altrove.
Ma i fatti raccontano altro. L’Italia non è un Paese autoritario, bensì una democrazia solida, dove la stampa è libera, il Parlamento funziona e la magistratura è indipendente. E il governo guidato da Giorgia Meloni – nato da una vittoria limpida e frutto di consenso popolare – ha portato risultati concreti: oltre un milione di nuovi occupati, crescita sopra la media europea, fisco più equo e record nel recupero dell’evasione.
Dov’è, dunque, la “democrazia in pericolo”? Nel racconto, non nella realtà. È il riflesso di chi ha perso il contatto con la verità e usa la paura come unico linguaggio.
Questo schema si ripete ogni volta che la politica non sa più persuadere. Quando non convince, alza i toni. Quando non ha soluzioni, costruisce nemici. È il pattern classico di chi sostituisce il dialogo con l’allarme. Lo abbiamo visto con Matteo Renzi, quando trasformò il referendum costituzionale nel plebiscito sulla propria persona. «Se perdo lascio la politica», disse, trasformando un voto tecnico in una sfida personale. Il risultato fu disastroso: perse il referendum e, con esso, la credibilità. Perché quando le parole non trovano conferma nei fatti, si ritorcono contro chi le pronuncia.
La coerenza, oggi, è il fattore più determinante per chi fa politica. In un’epoca di saturazione comunicativa, non basta dire: bisogna essere. Per diventare credibili serve mettere in pratica un concetto semplice ma difficilissimo al tempo stesso: mantenere la parola data. Significa trasformare le promesse in azioni, le parole in fatti, e dimostrare ogni giorno che ciò che si dice, si fa.
Chi governa l’ha capito bene. Giorgia Meloni non ha promesso miracoli, ma risultati concreti. E li ha raggiunti. È questo che spiega la differenza tra chi grida e chi convince, tra chi si aggrappa agli slogan e chi costruisce fiducia.
La sinistra, invece, ripete sempre lo stesso copione: evocare fascismi inesistenti, denunciare complotti immaginari, costruire emergenze su misura. È una strategia di sopravvivenza, non una visione. Ma come insegna la storia, le menzogne non durano mai a lungo.
Le storie, quelle vere, resistono a tutto. Restano quando la propaganda si dissolve. Perché raccontano l’essere umano, non l’ideologia. Parlano di libertà, lavoro, famiglia, identità. Sono le storie autentiche che hanno ridato fiducia agli italiani, restituendo dignità a un popolo che per anni era stato dipinto come sbagliato.
È per questo che Giorgia Meloni e Donald Trump hanno saputo costruire leadership solide: perché hanno raccontato la verità, e poi l’hanno dimostrata. Hanno unito parole e fatti, racconto e realtà.
Chi invece continua a gridare “al lupo” rischia di restare solo, a parlare a sé stesso, in un bosco che non ascolta più.
Perché la politica, come la vita, non perdona chi inganna. E alla fine, il tempo distingue sempre chi trasforma le parole in fatti da chi le usa solo per dare fiato alla bocca.