L’Iran è arrivato a un bivio storico. Da un lato il regime degli ayatollah, che da oltre quarant’anni opprime il suo popolo con leggi medievali, violenze e corruzione. Dall’altro, milioni di donne e uomini che non hanno più paura di gridare nelle piazze lo slogan che ha attraversato il mondo: “Donna, Vita, Libertà | Uomo, Patria, Prosperità”.
È in questo contesto che prende forma l’Iran Prosperity Project (IPP), presentato a fine luglio dal National Conference for Democracy in Iran (NUFDI). Un documento di 169 pagine che non si limita a immaginare un futuro diverso, ma disegna nel dettaglio la strategia per governare i primi 100-180 giorni dopo la caduta della Repubblica Islamica. Non è accademia, ma politica concreta: un piano per trasformare la rivolta in rinascita.
L’IPP è costruito come una vera e propria roadmap per evitare che la caduta del regime si trasformi nel caos. Perché la storia recente insegna che le rivoluzioni, se non guidate, rischiano di partorire mostri peggiori dei tiranni che hanno abbattuto. Non basti ricordare l’Iraq del dopo-Saddam o le Primavere arabe naufragate in guerra civile. Ecco allora l’urgenza di un piano che parli non solo al popolo iraniano, ma anche alla comunità internazionale, chiamata a scegliere se sostenere la libertà o continuare a chiudere gli occhi davanti ai crimini di Teheran.
Il cuore del progetto è un sistema transitorio guidato dal Principe Reza Pahlavi, erede dell’ultimo Scià, che l’IPP indica come “Leader dell’Insurrezione Nazionale”. Una scelta che farà discutere: c’è chi lo vede come un simbolo di unità, capace di raccogliere intorno a sé monarchici, repubblicani e semplici cittadini stanchi del regime; e chi teme che la parola “monarchia” sia ancora divisiva. Ma la verità è che in un momento di transizione serve un volto riconosciuto, in grado di dare credibilità all’estero e speranza all’interno e che l’alternativa, di chiara matrice ideologica marxista, è incompatibile per definizione con la democrazia e finirebbe col diventare una prosecuzione del regime attuale.
Attorno a Pahlavi il progetto costruisce tre pilastri: il Consiglio dell’Insurrezione Nazionale, con funzioni legislative; il Governo Transitorio, responsabile dell’esecutivo; e il Divan Transitorio, autorità giudiziaria con una Commissione per la Verità incaricata di affrontare i crimini degli ayatollah.
La tabella di marcia è scandita con precisione: entro quattro mesi due referendum popolari, uno per scegliere la forma di governo – monarchia democratica o repubblica – e l’altro sul destino dei leader del vecchio regime, processi pubblici o amnistia. Poi l’elezione di un’Assemblea Costituente, incaricata di scrivere in 6-12 mesi una nuova Costituzione, da sottoporre a referendum. Infine le elezioni per il nuovo Parlamento, il Mahestan, che sancirebbe la fine della fase transitoria. Una timeline ambiziosa, certo, ma necessaria per impedire che la rivoluzione venga sequestrata dai nostalgici del potere o dagli interessi stranieri.
L’elemento forse più innovativo riguarda il diritto. Invece di cancellare tutte le leggi della Repubblica Islamica, rischiando un vuoto normativo, o mantenerle tutte, tradendo lo spirito rivoluzionario, l’IPP propone un’Opzione Ibrida: mantenere l’impianto normativo per garantire continuità, ma abrogare subito le leggi simbolo dell’oppressione. Stop ai codici di abbigliamento per le donne, alle pene capitali, alla censura su internet e sulla stampa. È un compromesso intelligente: continuità per non precipitare nel caos, ma segnali forti e immediati per dire al popolo iraniano che un nuovo inizio è davvero cominciato.
Il piano è pragmatico: sicurezza, economia, servizi sociali e relazioni internazionali sono messi al centro. Ma non rinuncia al potere dei simboli, fondamentali in ogni rivoluzione. Usare parole persiane come Mahestan e Divan al posto di termini stranieri è un modo per restituire dignità alla lingua e alla cultura iraniana, sottratte per decenni all’ideologia degli ayatollah. Lanciare referendum ed elezioni significa restituire al popolo ciò che gli è stato negato per generazioni: la possibilità di decidere il proprio destino.
Naturalmente le sfide non mancano. Organizzare referendum ed elezioni in pochi mesi in un Paese uscito da una rivoluzione richiederà un coordinamento straordinario. Mantenere temporaneamente parte delle leggi del vecchio regime potrà deludere chi si aspetta cambiamenti immediati. E soprattutto l’Iran avrà bisogno di sostegno internazionale: riconoscimento, revoca delle sanzioni, investimenti. Senza, il rischio è che l’ennesima rivoluzione finisca in una nuova tragedia.
Eppure, al netto di tutto questo, l’IPP appare come un faro. È la prova che la libertà iraniana non è un’utopia, ma un progetto concreto. Che il popolo che ha dato al mondo poeti come Rumi e filosofi come Avicenna può finalmente liberarsi del giogo di un regime oscurantista e tornare protagonista della propria storia. L’Occidente non può girarsi dall’altra parte: sostenere il popolo iraniano significa difendere non solo la libertà di una nazione, ma i valori stessi della civiltà.
L’Emergency Phase | IPP non è perfetto, nessun piano lo è. Ma è una strada. E come recita il proverbio persiano: “Dove c’è volontà, c’è una strada.” Oggi la volontà degli iraniani è più forte che mai.
Tocca a all’Occidente sostenerla.