Il presidenzialismo è una cosa troppo seria per lasciarlo in mano a una legislatura impegnata – come dimostra la sua ennesima mutazione, nome in codice “larghe intese” – a perpetuare e autoconservare se stessa in ogni modo e in nome di ciò pronta ad affidare il destino delle istituzioni nelle mani esclusive di Mario Draghi.
L’ultima tendenza di Radio Chigi, infatti, sembra essere quella di sciogliere il nodo del Quirinale con una semplificazione che recita grossomodo così: dato che Sergio Mattarella non sembra intenzionato a concedere il bis (diversamente dal “principe” Napolitano); dato che – fra taglio dei parlamentari e sondaggi impietosi – una piccola percentuale degli onorevoli delegati rientrerà al prossimo giro (5 Stelle su tutti); dato che qualsiasi nome esca dal duplex Mattarella-Draghi non sarà in grado di mantenere saldo il patto del governissimo; dato tutto questo, insomma, non resta che mandare Mario Draghi sul Colle più alto.
Idea che certifica, al netto delle qualità del premier, il livello mediocre del dispositivo politico in atto fra il grosso della “maggioranza” nata – sulla carta – con la missione di salvare la nazione dalla pandemia (e dal Conte II). Fra le ipotesi quirinalizie che stanno mandando in subbuglio le segreterie della strana maggioranza, infatti, quasi nessuna riuscirebbe a garantire una tenuta tranquilla fino a scadenza naturale (in realtà fino a settembre 2022, il “traguardo” della pensione per i parlamentari).
Di qui il rischio, seguendo i ragionamenti nei corridoi di Palazzo, che un nome “di parte” possa scatenare da parte della Lega o dall’asse Pd-5 Stelle il precipitare della situazione con lo sbocco del voto anticipato.
La soluzione? Secondo uno dei king maker del governo Draghi, il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, è conseguenziale: spedire mr Bce al Colle, innestando però un membro del suo “cda” (da ministro Franco a sé stesso) a Palazzo Chigi. L’idea implicita nel ragionamento dell’esponente governista del Carroccio è che così la legislatura continuerebbe il suo percorso senza quel “vulnus” al governo che, come invece sottolinea Giorgia Meloni, si aprirebbe plasticamente in caso di promozione di Draghi al Quirinale.
Per spiegarsi meglio lo ha esplicitato nella sua intervista per il libro di Bruno Vespa: «Draghi potrebbe guidare il convoglio anche da fuori. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto, in cui il presidente della Repubblica allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole». Facile, no? Dopo le continue forzature costituzionali e le decisioni border-line – iniziate dalle manovre contro il governo Berlusconi nel 2011, passando per l’indicazione di Monti fino a quella dell’ex banchiere centrale al governo giunta materializzatesi nel giro di ventiquattr’ore – l’ultima trovata è quella di “riformare” le istituzioni dall’alto, senza un passaggio parlamentare: che vuoi che sia, questo il leit-motiv ormai, davanti all’emergenza?
A tutto questo un «no» deciso è giunto da Giorgia Meloni: proprio l’esponente del partito più presidenzialista dello scacchiere (e quello che, secondo tutti gli analisti, avrebbe più da guadagnare dal passaggio di Draghi al Colle: sulle cui ricadute in Parlamento nessuno, checché se ne dica, potrebbe assicurare nulla).
Un non possumus, questo della leader di FdI, motivato così nei giorni scorsi: se è vero che «la più grande riforma che si può fare in Italia è una riforma presidenziale», è altrettanto vero che per farla occorre rispettare le regole. Ossia una legge costituzionale. Ma soprattutto il “presidente degli italiani” «va eletto dai cittadini, perché l’idea di un presidenzialismo de facto imposto dall’alto a me non convince», ha spiegato ancora la leader dell’opposizione.
Il senso è chiaro: la riforma presidenzialista, il punto centrale del riformismo nazionale, è una cosa maledettamente seria. Che deve essere promossa e istituzionalizzata dalla politica e con l’adesione piena dei cittadini.
È un traguardo di modernizzazione, insomma, e non un misura di “emergenza”: a maggior se tale emergenza è la maschera con cui un certo ceto politico sta cercando disperatamente di prolungare sine die (ossia oltre il 2023) e senza consenso la formula del governissimo.