Per più di dieci anni il salario minimo è stato una chimera. Ma una volta arrivato il Governo Meloni è divenuto il cavallo di battaglia dell’opposizione, che però guarda caso nel corso della sua stagione governativa non ha mosso un dito per renderlo realtà.
È una strategia ben nota quella di contrastare in qualsivoglia modo la maggioranza di destra.
Il rischio è però che spesso questo atteggiamento ossessivo possa far cadere in errore, facendo portare avanti proposte, che seppure hanno il pregio di essere comunicativamente accattivanti, alla base non hanno punti di forza concreti.
È esattamente questo il caso del salario minimo, bocciato pure dal CNEL, che ha individuato non poche criticità alla ipotesi di riforma avanzata dal club di Conte e Schlein.
Nella Commissione Lavoro pubblico e privato di Montecitorio lo scorso luglio è stato audito informalmente il presidente del CNEL, proprio sulla proposta ‘anti-lavoro povero’ della opposizione. Le osservazioni in merito non hanno tardato ad arrivare: “La questione salariale in Italia non può essere limitata ad un’alternativa sull’opportunità o meno di introdurre un salario minimo per legge senza affrontare, a monte, i principali problemi che ostacolano la crescita dei salari dei lavoratori, tra cui i conclamati ritardi nei rinnovi contrattuali aggravati dalla crescita esponenziale del costo della vita e dall’elevato cuneo fiscale, dall’impatto della precarietà, del part-time involontario e del lavoro povero”. Queste le parole contenute nella memoria del CNEL sul salario minimo, approvata all’unanimità.
Se il salario minimo rimane la soluzione dell’opposizione per cavalcare l’onda dei consensi, al contrario, all’interno di uno degli organi con più voce in capitolo su questa partita (considerando anche il fatto che la stessa Giorgia Meloni abbia incaricato proprio il CNEL di esprimersi entro la fine di ottobre con una ‘proposta concreta’ in merito), il salario minimo è visto non tanto come la panacea a tutti i mali che vive il lavoro in Italia, ma piuttosto come uno strumento da poter eventualmente utilizzare in un secondo momento in maniera complementare, dopo aver fronteggiato tutta una serie di questioni ben più rilevanti e prioritarie.
È questa una visione condivisa e portata avanti dal Governo Meloni che, come più volte ha ribadito (e ha già iniziato a fare), intende puntare sulla detassazione, sul taglio del cuneo fiscale e su una contrattazione collettiva più forte. Tutti elementi imprescindibili per rendere i lavoratori più tutelati e, perché no, anche più ricchi.
Siamo alle solite.
Aboliamo per legge la povertà.
I risultati si sono visti, lo Stato ha sperperato dei soldi pubblici, chi era povero è restato povero ma tanti ci hanno guadagnato in modo illecito.
Il “salario” (ma la smetteremo di usare questo termine che ricorda quando il lavoratore era pagato con il sale? non siamo più nel medio evo, con buona pace della Schlein), o comunque la retribuzione di un lavoratore, dipendente o autonomo che sia, è frutto della domanda e dell’offerta.
Quindi gli ipocriti della sinistra abbiano il coraggio delle loro idee, e dicano apertamente di volere un regime socialista collettivistico, in cui lo Stato governa ogni attività economica e porti l’Italia alla rovina come tutti i regimi comunisti hanno fatto quando hanno represso la libertà delle imprese.
Restando in un pensiero di libertà, si tratta solo di capire cosa può fare lo Stato perchè la retribuzione dei lavoratori sia congrua rispetto alle capacità ed al merito profusi.
Non è facile da fare, ma è semplice da capire: creare le condizioni perchè sia vantaggioso intraprendere una attività economica.
Ad esempio:
Il lavoro diventerebbe subito una risorsa ricercata, e aumenterebbe il suo valore.
E’ una medicina amara?
Va bene, allora teniamoci l’imponibile della manodopera come ai tempi del latifondo, il salario minimo e l’esplosione del lavoro nero, con evasione fiscale e contributiva.
Ognuno ha i suoi ideali, ma diciamolo, cari signori della sinistra.
Con affetto
A.
PS: certamente dovremmo tagliare la spesa pubblica, cioè la ridistribuzione forzosa di reddito tra chi lo produce e chi campa di tasse.