“La Francia è una magnifica cattedrale da ricostruire” aveva detto Francois Bayrou solo un mese fa, prima che il suo esecutivo fosse costretto alle dimissioni dal voto di sfiducia incassato sulla presentazione della manovra finanziaria.
La sua frase mostra, in maniera molto evocativa, quello che è oggi l’Esagono: uno stato in pezzi che deve essere ricostruito per tornare a risplendere, esattamente come è stato fatto per Notre Dame de Paris dopo il devastante incendio di qualche anno fa. Il problema è che oggi non è possibile costruire una maggioranza di governo che possa progettare e portare a termine quel cantiere, come le recenti dimissioni del premier Sébastien Lecornu, dopo un mandato in carica di appena 27 giorni, quasi fosse uno dei “governi balneari” diventati famosi durante la Prima Repubblica italiana.
Ma cos’è che non sta funzionando?
Al di là del problema politico, la Francia sta vivendo, probabilmente, la sua peggiore crisi dalla fine della II Guerra Mondiale ad oggi. Nel discorso del mese scorso, infatti, Bayrou aveva parlato esplicitamente delle criticità che stanno colpendo il paese, dallo squilibrio dei sistemi pensionistici, che si presentano in una situazione forse peggiore di quella che portò in Italia alla Riforma Dini negli anni 90, alle difficoltà demografiche e del mercato immobiliare, del problema del comparto industriale che registra un calo di produzione che va avanti “fin dall’anno 2000”, di una scuola che non forma e che non permette di avere pari opportunità ai giovani, senza dimenticare i problemi di sicurezza, di migrazioni e di integrazione, di squilibri fra grandi città e “deserti rurali”.
Un dipinto a tinte fosche della realtà francese, quindi, a cui si aggiunge una debolezza della politica che porta alla completa instabilità governativa, cosa che si contrappone ai sogni di grandeur del presidente Macron, il cui scranno comincia a traballare in maniera sempre più visibile.
Nel frattempo il debito pubblico è arrivato al 120% del PIL, come indicava Milano Finanza il 7 ottobre, con un netto peggioramento sulla rilevazione del Q2 2025, anticipando di oltre due anni lo scenario peggiore indicato dalla traiettoria di deterioramento dell’indebitamento pubblico, mentre il debito privato si attesta ben sopra il 200% del PIL, avviandosi a doppiare quello delle famiglie italiane che, invece, resta stabile intorno al 100-120% del PIL secondo le stime meno favorevoli.
Tutto questo caos interno si riflette nelle quotazioni dei titoli di stato, gli OAT, che cominciano a mostrare un problema: il loro rendimento, sul decennale, è ormai pari, se non superiore di qualche punto base, rispetto al BTP italiano che, invece, continua la sua parabola discendente.
Ora si dirà: cosa c’è di così male?
Il problema vero è che il BTP è emesso da uno stato che ha avuto, per anni, un rating a un passo dal livello “junk” che indica i titoli speculativi e più rischiosi, mentre la Francia, nonostante il recente downgrade, resta nel “club” degli A-level, cioè degli emittenti di obbligazioni considerati più sicuri. Questo, in teoria, dovrebbe portare a rendimenti dei bond più bassi a remunerazione del rischio, eppure gli investitori stanno “pesando” il rischio della crisi economica e dell’instabilità politica in maniera molto più forte rispetto alle agenzie di rating, equiparandolo, oggi, al rischio dell’Italia che, invece, sembra spaventare sempre meno.
E questo è il momento di una nuova domanda, forse, perfida: perché la situazione italiana dovrebbe essere migliore se il rendimento dei titoli di stato è sostanzialmente parificato a quello francese?
La risposta è duplice.
Da un lato va considerato che il prezzo delle obbligazioni è correlato negativamente al loro rendimento, cioè ad alti rendimenti corrisponde un prezzo inferiore di acquisto, e questo crea un problema serio dal lato del rifinanziamento del debito pregresso e della copertura dei disavanzi strutturali di bilancio. Infatti il deprezzamento dei bond costringe a immetterne una quantità maggiore sul mercato per coprire le poste negative di bilancio, a un prezzo, il rendimento dei bond futuri, contemporaneamente, maggiore rispetto a quello precedente.
Questo comporta che se uno stato, la Francia, si trovi in una situazione di rendimenti crescenti e di debito crescente, avrà un costo finanziario sempre maggiore per poter chiudere i bilanci, un film già visto da questo lato delle Alpi, in effetti, mentre se un altro stato si trovasse in una situazione opposta con rendimenti in calo e uno stock di debito stabile o in traiettoria di rientro, l’Italia oggi, vedrebbe un netto miglioramento e un costo del debito pregresso in calo, con conseguenti maggiori risorse per investimenti, tagli fiscali o semplicemente per la riduzione ulteriore dell’indebitamento.
Al di là della questione economica e contabile, però, va indicato che uno dei punti principali considerati dagli investitori è la stabilità politica. Nonostante la fisiologica alternanza di maggioranze di governo, negli ultimi 50 anni, la Francia ha avuto un quadro di governance piuttosto stabile, mentre l’Italia era vista dal mondo come un vero e proprio marasma. Si citavano prima i “governi balneari” come esempio di maggioranze effimere, ma dal 1975 a oggi in Italia un governo durava mediamente 490 giorni, poco più di un anno e tre mesi, cosa che indica quanto fosse difficile pensare a una continuità di governo e indirizzo politico. Il 2025 mostra una situazione ribaltata, con la Francia che non riesce ad avere una guida, mentre l’Italia sembra aver trovato quella stabilità che da anni si stava cercando.
Questo è quello che si intuisce valutando i movimenti dei mercati, infatti, con i flussi di capitale che stanno privilegiando lo Stivale più che l’Esagono, e non appare assolutamente strano per chi abbia una minima esperienza in campo finanziario. Quello che veramente spaventa gli operatori, infatti, non è una crisi, non è una guerra o un disastro naturale, ma l’incertezza: tutti gli eventi che abbiano un’alta probabilità di avverarsi possono essere “prezzati” e i rischi coperti con strumenti appositi, il cosiddetto hedging, ma laddove ci sia una situazione in continua evoluzione, diciamo anche caotica, con difficoltà di previsione del futuro prossimo, questo fa scattare gli allarmi e spinge a liquidare le posizioni. Non è un caso che il VIX, l’indice che indica la volatilità del mercato, sia comunemente chiamato anche l’”indice della paura”.
Ecco, oggi la Francia rappresenta l’incertezza, con il pericolo di emulare l’Italia del 2011, mentre il Bel Paese, nonostante i suoi problemi strutturali ancora irrisolti come la struttura del fisco che non si fa fatica a definire folle, la burocrazia che rasenta l’assurdo mostrato da Goscinny e Uderzo nella gag del lasciapassare A38 in Le 12 Fatiche di Asterix, il mercato del lavoro ancora piuttosto rigido e la giustizia civile lenta e inefficiente, pare abbia trovato un suo equilibrio e da qui la preferenza negli investimenti.