Da anni sostengo che il burqa e il niqab non siano simboli religiosi, ma strumenti di oppressione. Non rappresentano la fede, ma la negazione della libertà. Ecco perché considero sacrosanta la proposta di legge contro il separatismo presentata da Fratelli d’Italia, che vieta il velo integrale nei luoghi pubblici, nelle scuole, nelle università e negli uffici.
L’iniziativa, depositata alla Camera l’8 ottobre scorso dal deputato Sara Kelany insieme a Galeazzo Bignami e Francesco Filini, prevede sanzioni da 300 a 3.000 euro per chi la viola. Ma, soprattutto, afferma un principio che dovrebbe essere ovvio: in Italia nessuna donna deve vivere dietro una maschera imposta, nessuno deve essere costretto a rinunciare alla propria identità in nome di una tradizione che contraddice i valori fondamentali dell’Occidente.
Non è una legge contro qualcuno. È una legge per le donne che ogni giorno subiscono l’umiliazione di essere rese invisibili. Non è una battaglia contro l’islam, ma contro il fanatismo che pretende di imporre le sue regole alle nostre società.
Il velo integrale non copre solo un volto: cancella la persona. Dietro quel tessuto si nasconde una visione del mondo in cui la donna è proprietà, non individuo. E chi difende questa pratica in nome del “rispetto delle culture” compie l’errore più grave: confonde la tolleranza con la sottomissione.
In una democrazia liberale non può esserci spazio per costumi che negano la parità tra uomo e donna. E non può esserci neutralità quando in gioco c’è la libertà stessa. Lo scriveva Prezzolini: il conservatore autentico difende ciò che ha valore, non per nostalgia, ma per senso di responsabilità verso la civiltà che lo ha generato.
La proposta di Fratelli d’Italia è coerente con questa idea di civiltà. Non si limita a vietare un simbolo, ma interviene sulle radici del problema: regolamenta i finanziamenti alle moschee per contrastare il separatismo islamico, introduce norme contro i matrimoni forzati, e inasprisce le pene per chi induce con inganno o violenza a sposarsi.
È un atto di difesa, non di chiusura. Perché l’Italia non deve rinunciare alla propria identità per paura di essere giudicata. Difendere le nostre radici non significa negare il dialogo, ma renderlo possibile solo tra chi riconosce gli stessi principi di libertà e dignità.
Come ha ricordato Sara Kelany, «si tratta di misure per il rispetto dell’ordinamento italiano e per la tutela delle donne, non di un pregiudizio ideologico». Ed è proprio questo il punto: non si tratta di scegliere tra libertà e rispetto, ma di ristabilire la verità su cosa sia davvero la libertà.
Chi oggi accusa questa proposta di “islamofobia” finge di non vedere che la vera discriminazione è lasciare che donne e ragazze continuino a vivere imprigionate in un simbolo di sottomissione. Difendere la loro dignità è un dovere morale prima ancora che politico.
Da conservatore, credo che non ci sia nulla di più rivoluzionario che proteggere ciò che ci definisce: la nostra civiltà, la nostra identità, la nostra libertà.
Perché la libertà non è un velo che copre: è una luce che illumina il volto di ogni donna.