Inside America – Speciale Conclave: il silenzio prima delle campane

"Lo Spirito soffia dove vuole" – ma a volte potrebbe passare anche per i taccuini sgualciti di un cronista italoamericano, con una mezza nostalgia per la verità e un orecchio ben allenato per le mezze frasi. Forse Nico De Luca è solo un narratore fantasioso. O forse no. Forse i suoi racconti sono solo storie. Ma se lo sono, hanno il difetto di anticipare la realtà. "O nome que não se pronuncia, talvez seja o nome escolhido."

New Jersey, tre giorni dopo.

Il diner era di quelli con le luci al neon azzurrine, la moquette stanca e il caffè servito in tazze di porcellana spaiate. A quell’ora c’erano solo due poliziotti fuori servizio e una donna ispanica che grattava via numeri da un gratta e vinci con lo stesso zelo con cui certi preti puliscono gli argenti liturgici.

Io ero lì per incontrare un assistente anonimo, ma non qualsiasi, almeno così mi aveva detto. Un tempo, tentava di accreditarsi, aveva curato le email, i discorsi e – sempre secondo lui – gli spettri di un arcivescovo noto per le sue lettere infuocate e la sua improvvisa scomparsa dalle cronache ufficiali.

«Non mi chiamo, non mi siedo, non mi registri.» Disse. E poi si accomodò lo stesso.

Mi parlò di un documento informale, noto in certi circoli tradizionalisti come “La Lettera dei Sette”. Sette firmatari, sette punti fermi, sette candidati da escludere.

Uno di questi, mi disse, era “l’uomo del dialogo che ha smesso di parlare”, un francescano di rango, attivo in Medio Oriente, tenuto in sospetto perché non dava interviste. L’avevo già sentito nominare a Central Park, ma qui tornava come una costante scomoda.

Poi mi parlò della Cina.

«C’è un dossier. Top secret. Ma il titolo è trapelato: “Cardinalis ignotus Sinensis”. Pare che esista davvero un cardinale cinese, creato in pectore, per motivi di sicurezza. Non è sul sito del Vaticano. Non c’è nei bollettini. Ma qualcuno ha visto una firma. Se è vero, cambia tutto. Un pontefice di quella provenienza sarebbe la fine dell’ultima cortina di bambù. Oppure l’inizio di una nuova Guerra Fredda.”

Roma, qualche giorno dopo

L’aria sapeva di pietra e di fumo. I funerali del Pontefice erano terminati da poche ore, e già i cardinali si muovevano in borghese tra le vie romane con l’agilità di chi ha imparato a non farsi notare. Roma era sospesa, come prima di un’eclissi.

Il mio appartamento era a Trastevere. Terzo piano, vista sul nulla. Ogni tanto arrivava un messaggio cifrato, ogni tanto una voce dalla redazione. Ma il silenzio vero era dentro la città.

In un vicolo vicino alla chiesa di Santa Cecilia, un vecchio redentorista – di quelli che non hanno più niente da perdere – mi disse:

«Lo sa che c’è un francescano che parla con gli ebrei, con gli arabi e con Dio, ma non con i giornalisti? Quello è ancora in partita, anche se nessuno lo vede arrivare. Lo chiamano il testimone

Gli chiesi il nome, mi rispose:

“Chi sa già il nome, non ha bisogno di sentirlo.”

Poi mi parlò di un nome che nessuno teme. E che proprio per questo, potrebbe avanzare.

Il nome in ombra

Mi arrivò come un soffio. Non da una fonte, ma da una somma di indizi. Annotazioni su un libro lasciato in una biblioteca a Georgetown. Una predica dimenticata. Una poesia copiata su un block notes accanto a una tazza di tè.

Un nome portoghese. Un poeta. Un archivista del silenzio. Una voce che parla poco e legge molto. Non cerca, non chiede, non reclama.

Era lui l’uomo che non divide, ma ricompone. Che non infiamma, ma consola. Che non guida, ma orienta.

Nel suo nome, il Conclave avrebbe potuto non cambiare rotta, ma profondità.

E allora ho capito: il cappotto nero aveva ragione. La chiave non era a Roma. Era in quella bustina di zucchero lasciata su una panchina americana. Sopra, a penna, c’era scritto: “Non est elegere, sed discernere.”

E adesso era tempo di ascoltare le campane.

Capitolo III: La sera prima

Roma, ieri sera.

Le luci di Ponte Sisto sembravano tremare come se sapessero che da domani nulla sarà più come prima. Il conclave era alle porte, e la città respirava in apnea.

In un bar del Ghetto, un ecclesiastico che aveva dismesso l’abito per un trench color sabbia sussurrava frasi all’orecchio di un diplomatico senza nome. Più in là, un giornalista straniero osservava tutto annotando solo i silenzi.

Le voci correvano. Alcuni parlavano di un patto tra continenti, una sorta di equilibrio nuovo, che non passava più per le cordate classiche ma per intese post-ideologiche. Nessun fronte chiaro. Solo geometrie mobili, fatte di rispetto reciproco, paura condivisa e speranza cauta.

Tra le ombre, tornava spesso la figura di un uomo silenzioso. Non un outsider, ma un interno discreto. Nessuno lo temeva. Nessuno lo promuoveva. Eppure c’era. Presente nelle preghiere di alcuni, nei dubbi di altri.

Il nome non circolava, ma la sensazione sì.

Qualcuno, in una chiesa laterale, disse ad alta voce:

“Se sarà lui, lo capiremo non dal bianco della fumata, ma dal silenzio che la seguirà.”

E forse aveva ragione.

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Nico De Luca
Nico De Luca
Nico De Luca, 32 anni, italo-americano doc. Nato a Staten Island da genitori italiani, ha studiato giornalismo e ora vive tra New York e Roma. Quando non è a caccia di scoop, lo trovi a mangiare pizza.

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