A poche ore di distanza l’una dall’altra, due notizie tragiche hanno scosso l’opinione pubblica.
Infatti, solo poche ore fa sentivamo parlare di Iryna Zarutska, la giovane donna ucraina, rifugiatasi a Charlotte, negli Stati Uniti, per trovare pace, e che invece proprio lì è stata uccisa senza motivo su un treno della metropolitana.
E poi, la seconda notizia, quella dell’omicidio di Charlie Kirk, noto attivista ed esponente repubblicano americano, colpito mortalmente durante un evento pubblico.
Due vite spezzate. Due storie diverse, ma drammaticamente unite da un elemento comune: l’indifferenza selettiva con cui una parte della società, quella che si autodefinisce “inclusiva” e “progressista”, sceglie quali tragedie meritino attenzione. E quali invece no.
Iryna e Charlie, prima di tutto, sono vittime della cultura woke, che si propone come un movimento fondato sulla libertà, sull’uguaglianza, sull’inclusione. Ma che nella realtà dei fatti inneggia a tali principi solo se si è allineati a quello stesso pensiero.
Perché finora- e forse nemmeno dopo- abbiamo visto fiaccolate, mobilitazioni di massa, hashtag virali. Nessuna campagna social stile George Floyd o Charlie Hebdo promossa da quella sinistra progressista che in teoria dovrebbe condannare ogni forma di violenza-a prescindere dal colore politico.
E invece la morte di Iryna e Charlie sta passando quasi in sordina, portata alla luce solo da chi ne condivideva le idee. Ed è questo silenzio che fa più rumore di tutto il resto.
Due vittime che non fanno hype, come si dice oggi. Iryna era una giovane donna fuggita dalla guerra, vittima innocente di una violenza brutale. Charlie era un giovane leader conservatore che, piaccia o no, rappresentava una parte significativa dell’America reale, quella che ancora crede in Dio, nella famiglia, nella libertà di parola.
La verità scomoda è che alcune morti sembrano valere più di altre. Non perché lo siano realmente, ma perché rientrano – o meno – nella narrazione dominante.
E così, quando la vittima incarna ideali progressisti, la reazione mediatica e pubblica è immediata, amplificata, spesso anche strumentalizzata. Quando invece la vittima è un simbolo del pensiero conservatore, della destra cristiana o di posizioni non allineate, l’indignazione collettiva scompare. Anzi, talvolta si sfocia persino nel cinismo, nella minimizzazione, se non addirittura nel giustificazionismo.
È un fenomeno inquietante. Non per ciò che dice di chi muore, ma per ciò che rivela su chi osserva in silenzio.
È esattamente questo il cuore del problema della cultura woke, che intenderebbe combattere ogni forma di oppressione, ma finisce poi per crearne di nuove. Non si combattono le disuguaglianze ignorando la sofferenza di chi è “ideologicamente scomodo”. Non si costruisce una società libera mettendo a tacere chi ha visioni diverse. E non si può difendere la libertà selezionando chi merita rispetto e chi no, in base al colore politico o alla conformità ai dogmi culturali imposti.
O tutte le vittime meritano voce, memoria e giustizia – o nessuna società potrà davvero dirsi civile.
La morte di Iryna e quella di Charlie ci mettono davanti a una verità amara: c’è una parte della società, quella più a sinistra, che non ammette il confronto, ma solo l’adesione. Che professa tolleranza, ma che mostra odio per chi dissente, in cui la giustizia è a intermittenza, e la compassione a senso unico.