Israele-Iran: l’ora della guerra. Come cambia il Medio Oriente dopo l’Operazione Leone Ruggente

L’attacco preventivo dell’aeronautica israeliana ha decapitato i vertici delle forze armate iraniane, colpito impianti nucleari strategici e acceso lo spettro di un conflitto su vasta scala. La reazione della Repubblica islamica, il ruolo degli Stati Uniti, l’attivazione diplomatica italiana e lo scacchiere globale. Un’analisi per capire cosa c’è in gioco.

L’alba del 13 giugno

Nella notte tra il 12 e il 13 giugno 2025, mentre Teheran dormiva sotto un cielo insolitamente silenzioso, l’aeronautica israeliana dava il via all’”Operazione Leone Ruggente”: un attacco a sorpresa su vasta scala contro obiettivi strategici iraniani, concepito per decapitare la catena di comando della Repubblica islamica e colpire al cuore il programma nucleare. Poco dopo le 2.00, esplosioni simultanee scuotevano otto grandi città iraniane. I primi filmati diffusi mostravano colonne di fumo su Natanz, fiamme a Teheran, allarmi in funzione a Shiraz.

Alle 5.50, l’aereo di Stato israeliano “Wing of Zion” si alzava in volo, come già accaduto in passate operazioni di massima allerta. A Qom, i religiosi filogovernativi issavano la bandiera rossa della vendetta sulla moschea di Jamkaran: un gesto che, nella cultura sciita, segnala la volontà di vendetta per il sangue versato. A Tel Aviv, invece, il ministro della Difesa Israel Katz proclamava “lo stato di emergenza speciale” su tutto il territorio nazionale.

È guerra. E non una guerra per procura.

L’architettura dell’attacco: obiettivi, metodi, vittime

Secondo fonti dell’IDF (Israel Defense Forces), l’operazione si è sviluppata in cinque ondate aeree, con oltre 200 velivoli coinvolti, e ha colpito più di 100 obiettivi su tutto il territorio iraniano. Tra questi: basi missilistiche, centri di comando delle IRGC (Guardie della Rivoluzione), strutture di ricerca e stoccaggio dell’uranio arricchito, e soprattutto la centrale sotterranea di Natanz, da sempre al centro delle preoccupazioni occidentali.

I droni e i missili iraniani sono arrivati in risposta nel corso della giornata, ma secondo il portavoce dell’esercito israeliano Effie Defrin, la maggior parte è stata intercettata. Nel frattempo, Israele ha chiuso le ambasciate all’estero e attivato ospedali sotterranei lungo tutta la fascia settentrionale.

Il bilancio è drammatico per Teheran: uccisi il comandante supremo delle IRGC Hossein Salami, il capo della Forza Quds Esmail Qaani, il generale Amir Ali Hajizadeh dell’aeronautica IRGC, e il Capo di Stato Maggiore Mohammad Bagheri. Secondo fonti iraniane, nell’attacco sono stati colpiti e uccisi anche sei scienziati nucleari e il consigliere politico della Guida Suprema, Ali Shamkhani.

Non era mai successo. Nemmeno ai tempi di Soleimani. Questa è una decapitazione sistemica.

Perché Israele ha colpito adesso: logica e dottrina

Nel cuore strategico dell’azione israeliana c’è la combinazione di tre fattori: il presunto avvicinamento dell’Iran alla soglia nucleare, le prove di un imminente attacco in stile 7 ottobre da parte di proxy iraniani (Hezbollah, milizie irachene, Houthi), e il fallimento di ogni tentativo diplomatico.

L’ambasciatore israeliano in Italia, Jonathan Peled, ha dichiarato: “L’Iran stava pianificando un’invasione simile a quella di Hamas, su più fronti”. Israele ha dunque scelto la dottrina della “interdizione anticipata”: colpire prima che la minaccia si manifesti. La cosiddetta “Begin Doctrine” – dal nome del premier che ordinò il bombardamento del reattore iracheno Osirak nel 1981 – rinasce oggi con più mezzi e più bersagli.

A spingere Netanyahu, più che la politica interna, sembra essere stata la convinzione che non ci sarebbe mai stata un’occasione migliore. “Abbiamo scelto il momento giusto e l’abbiamo portata a termine”, ha dichiarato un alto ufficiale al quotidiano Ynet.

Gli Stati Uniti tra ambiguità e complicità tattica

La posizione statunitense merita una lettura a più livelli. Formalmente, l’amministrazione Trump ha smentito qualsiasi coinvolgimento diretto negli attacchi. Tuttavia, fonti di intelligence hanno confermato il ruolo degli Stati Uniti nella fornitura di dati e supporto informativo alla pianificazione dell’operazione israeliana. La portaerei USS Thomas Hudner è stata spostata verso il Mediterraneo orientale e l’intero dispositivo militare americano nella regione è in stato di allerta.

Donald Trump, in una serie di dichiarazioni su Truth Social, ha definito l’operazione “eccellente”, affermando che l’Iran “aveva avuto la sua chance, e non l’ha colta”. Trump ha rivelato di aver dato a Teheran un ultimatum 60 giorni prima, oggi scaduto. Il messaggio è chiaro: la responsabilità della guerra, secondo Washington, ricade integralmente su Teheran.

La Casa Bianca oscilla tra deterrenza e disimpegno, mantenendo però una postura funzionale all’azione israeliana. Una strategia coerente con la dottrina trumpiana di contenimento duro senza intervento diretto, e con l’obiettivo geopolitico di ridimensionare l’influenza iraniana nella regione.

La Repubblica islamica nella trappola dell’orgoglio

L’Iran si trova oggi di fronte a un dilemma strategico: rispondere con forza rischiando un conflitto convenzionale devastante, oppure limitarsi a una rappresaglia simbolica, salvando la faccia ma sacrificando la deterrenza. Le prime dichiarazioni ufficiali sembrano optare per la prima via.

“Le porte dell’inferno si apriranno presto per Israele”, ha dichiarato il generale Pakpour, successore di Salami alla guida delle IRGC. Il ministro della Difesa Nasirzadeh ha promesso una “risposta schiacciante”, mentre la Guida Suprema Khamenei ha invocato vendetta e guerra prolungata.

Ma Teheran sa di non poter vincere una guerra diretta. La sua forza è asimmetrica, fondata su droni, proxy, sabotaggi, guerra informativa. Per questo ha attivato Hezbollah, Houthi e milizie sciite irachene, e si prepara a un conflitto non lineare, prolungato, e potenzialmente destabilizzante in tutto il Levante.

Il fronte internazionale: l’Italia, l’Europa, Mosca e Pechino

La premier italiana Giorgia Meloni ha avviato una serie di colloqui con i principali attori internazionali, tra cui Donald Trump, Friedrich Merz e Ursula von der Leyen, con l’obiettivo di costruire una linea diplomatica condivisa. Ha poi convocato una riunione d’urgenza con i ministri competenti e l’intelligence. Tajani, da parte sua, ha auspicato “un ritorno al dialogo” ma ha sottolineato “la legittimità del diritto di Israele a difendersi”.

Macron ha espresso solidarietà al popolo israeliano ma ha chiesto moderazione. La Francia, pur condannando l’espansione nucleare iraniana, mantiene contatti con Teheran e spinge per una mediazione europea.

La Russia, per ora, osserva e si prepara. L’annuncio di un imminente colloquio tra Putin e Netanyahu lascia intendere che Mosca vuole riaffermare un ruolo stabilizzatore nella regione, soprattutto in chiave siriana. La Cina, invece, ha invitato entrambe le parti alla de-escalation, ma ha accusato Israele di “provocare instabilità” nel Golfo.

L’Onu ha convocato un Consiglio di Sicurezza straordinario, ma la spaccatura tra membri permanenti limita la capacità d’azione dell’istituzione. Il Segretario Generale ha parlato di “rischio di conflitto regionale su vasta scala”.

La doppia guerra: tra eserciti e narrazioni

Mentre i cieli del Medio Oriente si affollano di caccia e droni, si combatte anche una guerra parallela: quella dell’informazione. Le reti iraniane trasmettono slogan in ebraico a Teheran – “Cercate riparo sotto le macerie” – mentre l’IDF diffonde filmati ad alta definizione dei bombardamenti su Natanz. Ogni dichiarazione, ogni immagine, è parte di un conflitto psicologico che mira a influenzare l’opinione pubblica interna e internazionale.

Israele vuole mostrare determinazione e superiorità tecnologica. L’Iran, invece, cerca il martirio mediatico per rafforzare il fronte interno e la legittimità esterna. In questo contesto, la comunicazione gioca un ruolo militare a tutti gli effetti: è arma, non commento.

Due fuochi e un bivio

Israele ha colpito per sopravvivere. L’Iran promette vendetta per non scomparire. Entrambi si muovono in un equilibrio precario tra sopravvivenza strategica e disastro geopolitico. Ma se questo conflitto degenererà, non sarà confinato al Medio Oriente.

L’Europa è chiamata a fare di più. Non solo per contenere il conflitto, ma per evitare che la nuova guerra tra Stati riporti il mondo a uno scontro tra civiltà. Una soglia che sembrava dimenticata, e che ora ritorna. Con tutto il suo carico di fiamme, fede e fuoco.

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Leo Valerio Paggi
Leo Valerio Paggi
Leo Valerio Paggi per La Voce del Patriota.

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