Italia e multilateralismo: una prerogativa delle sinistre?

La scorsa settimana è stato celebrato il 17° anniversario della strage di Nassirya che nel novembre del 2003 costò la vita a 19 connazionali impiegati in Iraq nella missione Antica Babilonia. Nell’attentato perirono 17 carabinieri; il numero più alto di militari italiani che abbiano perso la vita in un singolo giorno in una operazione di pace dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tale ricorrenza è stata celebrata dalle istituzioni, sottolineando l’importante sacrificio offerto dai militari italiani in Iraq così come in altre missioni internazionali.

Parallelamente, nella stessa settimana, il risultato delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti sembra aver certificato la vittoria del candidato democratico e la sconfitta dell’amministrazione attuale. Il risultato è stato superficialmente interpretato da parte della stampa e delle forze politiche in Italia come una sconfitta del cosiddetto ‘sovranismo’ e un buon auspicio per il futuro dei rapporti tra Stati Uniti e Paesi europei, grazie al rilancio del multilateralismo che prevedibilmente avverrà con la nuova amministrazione democratica.

Sebbene non vi siano dubbi che le forze di destra in Italia abbiano simpatizzato con l’uscente amministrazione, tale lettura è quantomeno superficiale e fuorviante da un punto di vista storico, come confermato dall’intervista rilasciata oggi alla rivista Le Grand Continent dal Presidente francese Macron, che ha sottolineato invece come il ritorno dei democratici alla Casa Bianca non elimini la necessità per l’Europa di rafforzare la sua autonomia strategica da Washington.

L’attentato di Nassirya costituisce senz’altro una prova dell’impegno italiano nelle missioni internazionali a fianco degli USA e di una volontà di contribuire in modo attivo al mantenimento della sicurezza internazionale. Sia nella Prima (1991) sia nella Seconda Guerra del Golfo (2003) l’Italia offrì un generoso contributo, pagando un prezzo significativo anche alla luce dell’incapacità dell’Unione Europea di approntare una propria politica estera e di sicurezza autenticamente comune.

In entrambi i casi l’impegno fu assunto da governi di centro o di centro destra; nel 1991 contro l’opposizione vemente del Partito Comunista e nel 2003 contro l’opposizione di tutto il centro sinistra, che accusò il premier Berlusconi di sudditanza agli Stati Uniti.

L’equazione sconfitta di Trump e rilancio della collaborazione tra USA e Europa e successo dell’attuale governo è perciò senz’altro fuorviante e superficiale. A partire dalla crisi economica del 2008 gli USA hanno proceduto ad una riconsiderazione graduale dei loro impegni militari nel Grande Medio Oriente, dalla Siria all’Afghanistan e nello stesso Iraq. Avviata dalla fine dell’amministrazione Bush, tale opera di revisione della proiezione strategica americana è proseguita con l’amministrazione Obama: la Presidenza Trump ne è stata solo l’ultima interprete ed espressione allo stesso tempo.

Che Biden sia disposto a riconsiderare tale atteggiamento una volta insidiatosi alla Casa Bianca – e al netto di improbabili sorprese prodotte dalle azioni legali intentate dall’amministrazione corrente –  appare per ora poco plausibile per una serie di motivi; e seppure lo fosse è lecito nutrire dei dubbi sul fatto che l’attuale governo italiano, soprattutto alla luce delle posizioni espresse da alcune sue componenti in politica estera, diventerà facilmente un interlocutore preferenziale per la nuova amministrazione.

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