In un’epoca in cui i dazi tornano ad essere strumenti di diplomazia economica, e il dollaro danza come una bussola impazzita sulle rotte del commercio globale, l’Italia — con la sua struttura produttiva peculiare e la sua vocazione all’eccellenza — sembra oggi subire meno danni rispetto agli altri grandi Paesi europei. Ma non si tratta di un caso. È il frutto di una combinazione singolare tra assetti economici, dipendenze energetiche, specializzazione manifatturiera e flussi valutari. Mentre la Germania si contorce sotto il peso di un surplus industriale a rischio e la Francia vede messa in discussione la sua storica penetrazione culturale nei mercati esteri, l’Italia galleggia, non senza difficoltà, ma con una resilienza operativa che merita di essere letta con attenzione.
Il nuovo equilibrio: tra dazi e cambio
L’accordo USA–UE del luglio 2025 ha imposto un dazio uniforme del 15% su gran parte delle merci europee dirette verso gli Stati Uniti. Una misura voluta dal secondo mandato trumpiano, per riequilibrare — a detta di Washington — i rapporti commerciali con il Vecchio Continente, da troppo tempo sbilanciati a favore dell’Europa. L’Unione Europea ha accettato, in cambio della promessa di evitare un’escalation al 30% che avrebbe colpito l’intero impianto dell’export continentale.
A prima vista, si direbbe che tutti i Paesi dell’UE siano stati colpiti in egual misura. Ma a ben guardare, gli effetti si distribuiscono con forti asimmetrie. E l’Italia, in questo scenario, pur penalizzata, non è la più danneggiata.
L’euro forte e il vantaggio sull’import energetico
Il cambio attuale EUR/USD (1 EUR ≈ 1,16 USD) non gioca certo a favore delle esportazioni europee. Un euro forte rende i prodotti italiani più costosi negli Stati Uniti. Ma il rovescio della medaglia — per l’Italia — è un risparmio importante sull’importazione in dollari di beni strategici come gas naturale liquefatto, petrolio, semiconduttori e software industriale.
L’Italia è, infatti, più esposta all’import energetico rispetto a Paesi come la Francia, che dispone del nucleare, o la Germania, che ha diversificato pesantemente sulle rinnovabili. Ed è proprio in questa dipendenza strutturale dal gas che il cambio favorevole diventa un cuscino prezioso: si stima che il solo effetto del cambio comporti un risparmio superiore a 1,5 miliardi di euro annui sull’approvvigionamento energetico dagli USA. A ciò si aggiunge il minor costo dei semiconduttori americani, fondamentali per i comparti italiani dell’automotive, dell’industria biomedicale e della domotica.
Il made in Italy resiste: il ruolo dell’identità
È vero: i dazi penalizzano il nostro export. Ma il peso qualitativo dei beni italiani di lusso, moda e agroalimentare consente una traslazione sui prezzi finali che altri non possono permettersi. Una bottiglia di Brunello di Montalcino o un abito sartoriale italiano non si scelgono in base a un calcolo di convenienza. Sono simboli, icone, frammenti identitari. E chi compra questi beni negli USA spesso è disposto a pagare il sovrapprezzo. Questo “effetto elasticità minore alla domanda” permette ai produttori italiani di assorbire parte del dazio senza perdere i clienti più affezionati.
La Germania, al contrario, vende macchine utensili, componenti industriali, automobili ad alto contenuto tecnologico ma fortemente sensibili al prezzo. Il dazio del 15% rischia di spostare ordini verso fornitori sudcoreani, giapponesi o canadesi. La Francia, pur contando su una buona reputazione gastronomica, ha perso smalto competitivo nei beni agroalimentari, dove l’Italia domina con numeri e reputazione.
L’agilità delle PMI italiane come scudo operativo
Un altro fattore decisivo è la struttura produttiva italiana, fondata su PMI flessibili, capaci di adattarsi rapidamente ai cambiamenti della domanda, di rinegoziare margini, e di esplorare nuovi mercati.
Mentre in Germania la grande industria è incardinata in un sistema ad alta rigidità contrattuale e logistica, e in Francia domina il ruolo dello Stato e dei colossi parastatali, in Italia si muove un arcipelago imprenditoriale che reagisce più velocemente. Non per superiorità sistemica, ma per necessità genetica. L’abitudine a confrontarsi con instabilità normative, tassazione mutevole e logistica incerta si è trasformata — negli anni — in una forma di resilienza culturale.
Questa capacità di rispondere con rapidità permette agli operatori italiani di:
- ridefinire le filiere in modo meno doloroso,
- assorbire aumenti di costo con soluzioni artigianali ma efficaci,
- e in alcuni casi dirottare l’export verso altri mercati (come Emirati, Sud-Est Asiatico, India).
Bilancia commerciale e vantaggio comparato
Secondo gli ultimi dati ICE/ISTAT, l’Italia registra ancora un saldo attivo con gli USA, anche dopo l’entrata in vigore dei dazi. Mentre la Germania rischia nel 2025 un calo di oltre 8 miliardi di euro di export verso gli Stati Uniti, e la Francia una perdita netta superiore al 10% nel comparto alimentare, l’Italia si attesta su un calo contenuto tra il 3 e il 5% — parzialmente compensato dalla riduzione dei costi delle importazioni in dollari.
In altre parole, l’Italia perde meno, risparmia di più e mostra un saldo commerciale che regge meglio di quanto ci si potesse attendere.
Conclusione: la forza nascosta della debolezza strutturale
In un’Europa scossa dalle ritorsioni tariffarie e da uno scenario globale di crescente incertezza monetaria, l’Italia dimostra — ancora una volta — di sapersi muovere tra i margini, sfruttando le proprie contraddizioni strutturali come leve di sopravvivenza. Dipendente dall’estero per l’energia, ma forte nell’identità del prodotto. Frammentata nel tessuto produttivo, ma flessibile. Penalizzata dai dazi, ma capace di reggere l’urto grazie al valore simbolico delle sue merci.
Il dazio colpisce tutti, ma non con la stessa forza. E se l’Unione Europea nel suo insieme vacilla sotto il colpo dell’unilateralismo americano, l’Italia resiste, piegandosi senza spezzarsi. Una lezione di adattamento che vale più di mille trattati.