Oggi ricorrono 50 anni dall’estremo gesto con cui si sacrificò Jan Palach, patriota cecoslovacco divenuto simbolo della resistenza anti-sovietica del suo Paese.
Arrivò in piazza San Venceslao, davanti al Museo Nazionale, al centro di Praga, proprio lì dove l’estate prima erano sfilati i carri armati sovietici, in una fredda mattinata ed i passanti, infreddoliti e indifferenti, di colpo si trovarono ad essere testimoni, loro malgrado, di un grande atto di amore per la Patria, un attimo ed ecco il giovane in mezzo a loro divampare come una torcia.
Il corpo dello studente Jan Palach, 21 anni, fu avvolto dalle fiamme ed a nulla valse l’intervento di alcuni passanti che tentarono di spegnere le fiamme ma questo prolungò solo le sofferenze del giovane studente che lasciò uno scritto per giustificare il suo gesto.

Con questa lettera annunciava la decisione di darsi fuoco per combattere «la disperazione e la rassegnazione» che incombevano sulla Cecoslovacchia schiacciata sotto il tallone comunista. Parlava al plurale utilizzando il «noi» riferendosi ad un «gruppo di volontari» che avevano deciso, estraendo a sorte di volta in volta il nome della vittima, di immolarsi. E concludeva: «Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno…» firmato «La torcia numero uno». Al di là dei fatti il gesto di Jan Palach, che ancora oggi è uno degli esempi più limpidi tra i martiri del comunismo, va esaltato per la scelta di grande coraggio nel tentativo di scuotere un paese rassegnato al dominio sovietico.
Una situazione che vedeva la Cecoslovacchia rinnegare i suoi stessi fondamenti, perdere lo spirito nazionale, dimenticare le proprie tradizioni ed essere governata da una politica totalmente anonima che svendeva il paese agli stranieri nella difesa di interessi personali, nell’ambizione, nella sete di potere, nell’ipocrisia.
L’idea di provocare una scossa in altre persone, fu covata in gruppo con altri studenti ma si trasformò in una pia illusione nonostante che il gesto di Palach, anche a distanza di anni, conservi in sé una tragica bellezza.
Jan Palach scelse di essere sé stesso fino in fondo e, forse anche inconsapevolmente, riuscì a superare tutto ciò che di umano c’era in lui mostrando una determinazione ed una intransigenza che mostra attraverso il suo gesto la fede incrollabile nel suo sogno.
Non ebbe paura di mostrare, nella forma più eclatante possibile, il suo disprezzo per gli invasori ma anche per i compatrioti meschini, servili e vili che preferirono non vedere, obbedendo al suo codice d’onore avviandosi verso l’ultimo viaggio con un sorriso stampato sulla faccia per schernire la morte.
Jan Palach è uno di quei personaggi che hanno lottato per la libertà e che vale la pena di ricordare interrogandoci sempre se sia morto da martire o da eroe nauseato dalla maniera in cui i suoi compatrioti sembravano rassegnati di fronte alla limitazione della loro libertà e di come i paesi occidentali, così come era già accaduto in precedenza con la Rivoluzione ungherese del 1956, si erano girati dall’altra parte.
Palach rappresenta oggi il simbolo di martire per la libertà, celebrato dagli anticomunisti di ogni latitudine che fu accompagnato il giorno dell’imponente corteo funebre, morì il 19 di gennaio, da oltre 600mila persone che sfilarono silenziose davanti al feretro che fu collocato al fianco della statua di Jan Hus, teologo boemo, che durante il Concilio di Costanza venne condannato a morte e arso vivo sul rogo.