In un mondo sempre più dominato da algoritmi e interessi geopolitici, persino la reincarnazione è diventata terreno di scontro tra fede e potere. Succede in Tibet, dove la Cina comunista – atea per statuto e autoritaria per vocazione – vuole decidere chi sarà il prossimo Dalai Lama. Non un titolo simbolico, ma il cuore spirituale del buddismo tibetano, che per secoli ha indicato nella rinascita il cammino dell’anima.
Ma oggi Pechino pretende di sostituirsi al sacro. Non per convinzione, ma per controllo.
Il Partito Comunista contro la fede
Il Dalai Lama, oggi 89enne, ha annunciato che a ridosso del suo 90° compleanno diffonderà un messaggio in tre lingue sul tema della sua successione. Un gesto atteso, ma che sta facendo tremare i palazzi del potere di Pechino, dove la preoccupazione non è spirituale, ma strategica: “se controlliamo il Dalai Lama, controlliamo il Tibet”, avrebbe spiegato un funzionario cinese. È questa la logica della dittatura: trasformare la reincarnazione in atto burocratico, l’anima in documento di partito, la fede in strumento di sorveglianza.
Eppure, il Dalai Lama è stato chiaro. Se la situazione in Tibet rimarrà sotto oppressione, il suo successore non nascerà in territorio cinese. Verrà invece identificato tra i 150.000 tibetani della diaspora, “nel mondo libero”.
Ateismo militante e repressione spirituale
Non è la prima volta che il Partito Comunista cinese interviene con la clava ideologica sulla religione. Nel 1995, il Dalai Lama aveva riconosciuto un bambino come Panchen Lama, figura chiave nella successione spirituale. Ma quel bambino fu sequestrato da Pechino e non se ne seppe più nulla. Al suo posto, il regime impose un altro bambino – scelto dal Partito – che oggi, da adulto, ha giurato fedeltà a Xi Jinping.
È l’apoteosi dell’assurdo: un regime ateo che pretende di stabilire dove e in chi si reincarna un’anima.
Il portavoce dell’Amministrazione Centrale Tibetana, Tenzin Lekshay, è stato netto: “Il Partito Comunista ha distrutto monasteri, torturato monaci, imposto la videosorveglianza nei luoghi sacri. Come può ora arrogarsi il diritto di essere custode di una fede che ha cercato di annientare?”.
La reincarnazione come atto politico
Il concetto stesso di reincarnazione è, per i comunisti, incompatibile con la loro visione materialista della realtà. Eppure, ne rivendicano la gestione. Perché? Perché hanno paura. Paura della fede, paura dell’identità, paura che qualcosa sfugga al loro controllo.
Secondo Dibyesh Anand, professore di relazioni internazionali a Londra, “L’idea che Pechino possa decidere il destino spirituale del Dalai Lama è il segno più evidente dell’arroganza totalitaria del regime. È la negazione stessa della spiritualità”.
E così, mentre il mondo celebra i 90 anni di Tenzin Gyatso, il 14° Dalai Lama, la Cina prepara un suo “clone spirituale”, un falso Dalai Lama scelto dal Partito, da affiancare ai suoi apparati repressivi in Tibet. Una reincarnazione su ordinanza politica, utile a spegnere le ultime scintille di resistenza morale in una regione occupata dal 1951.
L’Occidente tace, ma l’India osserva
L’eventualità che il nuovo Dalai Lama venga scelto tra i profughi in India pone anche un delicato problema diplomatico. Se l’India dovesse ospitare il “vero” successore, Pechino reagirebbe con furia, come già accaduto per la visita del Dalai Lama a Ladakh, regione contesa tra i due giganti asiaticiDalai Lama risks Chines….
Ma l’Occidente? Silenzio. Troppo impegnato a non irritare il dragone cinese per difendere la libertà religiosa di un popolo.
Il comunismo non tollera l’anima
Quella che si sta giocando intorno alla reincarnazione del Dalai Lama **non è solo una questione tibetana. È la rappresentazione plastica di cosa significhi vivere sotto un regime comunista: non solo senza libertà, ma senza trascendenza. Un mondo dove anche l’anima deve avere il timbro del partito.
La Cina comunista vuole decidere se il Dalai Lama può reincarnarsi. E così facendo, mostra per l’ennesima volta la sua vera natura: materialista, antispirituale, totalitaria.